La voce dello scrittoreEmanuele Trevi: “Sono di sinistra e capisco Salvini, ma lasciar morire le persone in mare non è politica, è orrore”

Roma? È come vivere a Gardaland. Le petizioni? Solo quelle per animali. I migranti? Un conto è il sentimento della gente, un altro il dovere morale di salvare persone in mare. Intervista all'autore di “Sogni e favole”

FEDERICO SCOPPA / AFP

Ci sono città il cui destino si svolge sotto il segno di una misteriosa leggerezza. Una di queste è Roma, la città di Sogni e favole, l’ultimo romanzo di Emanuele Trevi edito da Ponte alle Grazie. Roma, resa oggi «la sorella scema di Milano» proprio da quei romani che per asserire superiorità antropologica rispetto agli stranieri che affollano la loro città dicono «Quanno che questi ereno ancora barbari, noi eravamo già frosci». Finché poi, magari un poco sonnecchiosamente, tirano fuori cose incredibili, e allora «il mingherlino e malaticcio, il figlio del mercante di farina si rivela capace di verseggiare all’impronta, con tanto di rime al posto giusto», i ladri di motorini stipulano trattati di non belligeranza con i gestori dei cineclub: noi non rubiamo niente all’interno del vostro perimetro («ce potete lascià le chiavi, ce potete!»), voi ci fate guardare Tarkovskij e film muti gratis («te rendi conto? Devi pure leggere!»). Paiono doni ricevuti «alla nascita da una vecchia e sdentata fata rionale di Roma» ‘sti romani, di nascita o di adozione, fa lo stesso.

Roma, 1983. Ci sono un fotografo, una poetessa e un critico letterario. Arturo Patten, Amelia Rosselli e Cesare Garboli. Poi c’è Emanuele, quanto davvero Emanuele Trevi non è dato a sapere né ha importanza, che con Lacan sembra volere dire a ciascuno dei tre «amo in te qualcosa in più di te», dove «qualcosa» sta per unica possibile espressione del sé. Intervistiamo lo scrittore a Milano, in un ristorante toscano dalle parti di Porta Venezia, sul tavolo poggia occhiali da sole tondi, fuori piove, scende nevischio. «A me piacciono proprio le persone», dice prima di ordinare filetto di manzo, molto al sangue. Il tono è un po’ stupito, come di chi non abbia finito l’«apprendistato» riportato nel sottotitolo del libro, e sogni, invano, di «farsi asportare l’inconscio come con l’appendice» perché «l’inconscio è un cretino».

Dunque ancora Roma. Non è difficile viverci?
Mah, sa, alla fine diventa come abitare nella nave dei pirati di Gardaland.

Cioè?
Cominci a percepire i posti non come luoghi in cui si vive e si mangia, ma come qualcosa di estroverso e destinato allo sguardo altrui. In passato ho abitato nel quartiere ebraico, ogni mattina mi affacciavo, magari per fumarmi una sigaretta, e finivo nei telefonini di tutto il mondo. Stavo in una casa disordinata, sporca, come spesso sono le case, ma con questa trave bellissima del Quattrocento che attraeva le fotocamere delle persone. Come Disneyland, Roma dà la sensazione di un luogo sempre in manutenzione, che non chiude mai. Nel libro ho cercato di raccontare l’evolversi di questa sensazione fin dall’infanzia, quando ancora non era così fortemente percepita. L’alternativa sarebbe delimitare l’antico dal resto della città, ma non mi piace. A me piace proprio l’obelisco egiziano intorno al parcheggio con le macchine.

Perché?
Perché quello che mi commuove del passato è quando permette al presente di avere un’allucinazione. Le faccio un esempio, Stendhal, che ho studiato e amo molto, tra le varie cose mi ha illuminato su un posto a me caro, via Merulana, in uno scritto dice che via Merulana è l’ideale per una galoppata. Dirlo oggi è impensabile, piena com’è di macchine, poi però ti accorgi che la via ha ancora la doppia fila di platani, osservi, e l’immagine di una galoppata diventa visibile.

Di Roma si è sempre scritto molto.
La rielaborazione romanzesca della città la trovo una pappa già fatta, sono invece maniaco di andare a vedere le lettere scritte da Roma, i memoirs, i diari. In questo periodo sto scovando le lettere di Virginia Woolf, che ha sempre una percezione agitata e negativa della città, mentre su Perugia scrive pagine straordinarie, su Roma è sempre casuale, non la ama. Quando ero giovane mi ha molto influenzato il libro di Angelo Maria Ripellino Praga magica, un libro straordinario che raccoglie i rapporti che gli scrittori intrattennero con Praga fino all’invasione sovietica. Il mio sogno sarebbe riuscire a fare una cosa del genere.

A proposito di sogni, citando Hemingway, lei ha detto che se uno elimina parti buone è il sintomo che sta scrivendo bene. C’è una parte buona eliminata che rimpiange o sogna di reintegrare in qualche libro?
In Sogni e favole è stato eliminato un ricordo di infanzia molto bello relativo al Parco dei Daini, una parte di Villa Borghese costruita dal padre di Bernini e da Bernini giovane, ma devo dire che applico il metodo di Hemingway in tutti i libri senza particolari sofferenze. Mi piace snellire, tant’è che tra i miei contemporanei sono rimasto piuttosto indifferente a David Foster Wallace, pur riconoscendogli tantissimo. Non ho molto simpatia per la tecnica dell’accumulo.

Per Michel Houellebecq ha invece simpatia?
Molta. È una persona che non fa niente per essere simpatica e proprio perciò lo risulta. È stato mio ospite a Roma, non gli piaceva l’albergo in cui alloggiava perché troppo bello. Abbiamo bevuto un po’ di bottiglie di vino quella sera.

Eppure non stupirebbe sapere che il ragazzotto gaudente in fila al buffet di un happy hour e il commercialista vogliono diventare Houellebecq.
A spostare l’asse del bovarismo dall’opera all’autore è stato indubbiamente Hemingway. Madame Bovary legge i libretti dell’opera nel tentativo di congiungersi al personaggio dell’opera, non le importa niente essere un musicista. Legge il romanzo e vuole essere l’eroina, vuole fare l’amore, avere quella vita lì, non esserne l’autrice. Gli stessi lettori di Madame Bovary si identificavano con Emma, chi voleva essere Flaubert? Nessuno. A un certo punto è successo che il produttore, fino ad allora la persona più oscura, è diventato l’oggetto privilegiato delle smanie di identificazioni altrui, un cortocircuito prodigioso, che trascende l’aspirazione comune a diventare scrittore. Lo vediamo in quel libro meraviglioso che è Revolutionary Road, dove i protagonisti vogliono andare a Parigi non per fare gli scrittori o altro ma per diventare Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.

La sinistra comunista che ha battuto i nazisti negli anni Trenta si fondava su un radicale, tragico, nobilissimo pessimismo antropologico, ereditato da Hegel e dalla grande tradizione romantica tedesca. La sinistra di quegli anni non aveva una concezione boldriniana del genere umano

Si parla molto del romanzo Serotonina di Houellebecq. Lo ha letto? Le è piaciuto?
Proprio stanotte ho finito di leggere Serotonina e devo dire che dalla persona che ha scritto Le particelle elementari mi aspetto criteri meno addizionali. Chiaramente è ben scritto, fa ridere, ma non è un’opera d’arte. Tra l’altro il personaggio protagonista in qualche modo risente di quanto detto prima, del successo esistenziale dell’autore – e sì che rappresenta il peggio che possa capitare – un uomo costretto a prendere la serotonina e diventato impotente. C’è la scena bellissima in cui il medico, analisi ormonali alla mano, gli dice «lei sta morendo di tristezza», ed è vero. Nonostante ciò il protagonista del libro è un fico, quando se ne va la maniglia della portiera si commuove, tutti gli vogliono bene, perché Houellebecq è così, è una persona a cui è facile volere bene. C’è una retroazione sul personaggio di Florent, oggi la figura Michel Houellebecq è ingombrante in Europa, come è stata quella di David Foster Wallace dopo Infinite Jest.

L’America però è grande e i suoi circuiti letterari più ampi di quelli europei.
È vero, l’unica volta in cui uscì dall’America surrealisticamente andò a Capri per partecipare alle conversazioni di Antonio Monda. Ricordo che stavamo tutti lì a guardare questa figura di perdente vincente assolutamente autentica. Wallace ha messo la bandana sui suoi libri.

Chissà che vecchio sarebbe diventato.
Già, una delle grandi cose che ci è dato di godere è vedere negli anni le persone invecchiare, perché è come se tu facessi una rotazione intorno a un’isola: vedi il porto, vedi la parte scoscesa, vedi tutto. Io e Marco (Vigevani, importante agente letterario seduto con noi al tavolo, ndr) ci conosciamo da così tanti anni che ormai ho il sospetto che organizziamo conferenze per la bellezza di stare a cena insieme. La cultura diventa quel momento bellissimo di primavera in cui uno si sacrifica e organizza il convegno, l’altro, spesso io, organizza la conferenza su Kafka, ognuno fa il suo per ritrovarsi in compagnia dell’altro e insieme cazzeggiare.

E non si scende in piazza. Perché gli intellettuali non scendono in piazza? Per paura che je menamo?
Secondo me scendono in piazza. Io ho firmato l’appello per la Sea Watch, mi ha chiamato Sandro (Veronesi, ndr) me lo ha letto e ho firmato. A scatola chiusa firmo solo per gli animali. La foca, la zebra, di qualsiasi animale, mi fido.

Lei è una persona di sinistra?
Lo sono. Indubbiamente mi piacciono le cose della sinistra, d’altra parte emotivamente posso ritrovarmi vicino a una persona come Salvini, nella misura in cui non ritengo che il diverso, il nuovo, siano a prescindere una fonte di ricchezza. Il mio amico più caro l’ho conosciuto in prima media. Dunque mi chiedo “allora perché sono di sinistra?”, perché mi sembra osceno trasformare uno stato d’animo in un argomento politico. Non sento mio il paradigma di persone sinceramente incuriosite dal diverso come Sandro Veronesi o Edoardo Albinati, ciò non mi solleva dall’imperativo di salvare delle persone in mare. A questo servono le leggi, non agli stati d’animo. Finché la sinistra non affronterà il cortocircuito orrendo messo in atto dalla destra, continuerà a perdere.

Quale cortocircuito è stato messo in atto dalla destra?
L’idea che un sentimento istintivo, viscerale, debba diventare forma della società. È una cosa orrenda, tecnicamente il nazismo, nemmeno il fascismo, è nato così, come identificazione di un sentimento che posso avere io come Adolf Hiltler che diventa legge. A me fa orrore che nel Mediterraneo muoiano persone, perché macchia la comunità, la cosa per la quale io pago le tasse e alla quale sono felice di appartenere. Non sono attratto aprioristicamente dal diverso ma amo vivere in una comunità italiana ed europea. Dato che c’è tantissima gente come me, sarebbe una mossa vincente, a mio parere, cominciare ad ammetterlo.

In cosa è diversa l’attuale sinistra da quella passata?
La sinistra comunista che ha battuto i nazisti negli anni Trenta si fondava su un radicale, tragico, nobilissimo pessimismo antropologico, ereditato da Hegel e dalla grande tradizione romantica tedesca. La sinistra di quegli anni non aveva una concezione boldriniana del genere umano, e ribadisco l’ovvio, Laura Boldrini è una donna rispettabilissima. L’essere umano è un gran figlio di buona donna, lo sapevano Brecht, Walter Benjamin, Malraux, di cui ora Bompiani ha ripubblicato La condizione umana, libro meraviglioso. Tutta quella generazione aveva ereditato dai professori, Schopenhauer, Hegel e via dicendo, una conoscenza della natura umana per nulla retorica, così profonda da consentire poi di fare cose straordinarie, pur partendo da una situazione di debolezza e perdendo la guerra in Spagna.

Come scriveva quel tale: che fare?
Dovremmo capire e spiegare alle persone che una cosa è quello che sentono e una cosa sono i doveri che comporta la natura umana, tra cui, essendo l’Italia un Paese marino, salvare le persone in mare. Chiaro che in Italia non può funzionare il diritto dei ghiacci come in Antartide, ogni conformazione fisica crea una propria cultura, ma la sinistra per ora si è limitata ad alzare una diga retorica poggiando esclusivamente sul paradigma del diverso per arginare l’avanzata di una melma nera. E non è così efficace.

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