Dunque, tutto deve rimanere come è. Questa è la conclusione, alla quale si giunge, dopo aver letto il fondo di Ernesto Galli della Loggia, comparso sul Corriere della Sera del 14 febbraio. Infatti, la storia del regionalismo italiano rivelerebbe – a suo dire – che «Ci si è accontentati e ci si accontenta assai più prosaicamente di reclamare da parte dei più ricchi e sviluppati la massima mano libera nei confronti dello Stato centrale». Insomma, né più né meno che voluttuose rapine nei confronti di uno Stato, concepito come l’ente che consente a tutti di vivere alle spalle degli altri: più precisamente, alle Regioni del Nord.
L’illustre storico prende in esame le richieste di maggiore autonomia, avanzate dalle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Esse riguardano «una gran quantità di materie», in una misura che determinerebbe «la fine del servizio sanitario nazionale e del sistema nazionale dell’istruzione, il potere di veto delle Regioni sulla realizzazione delle infrastrutture, la parcellizzazione delle normative, la proporzionalità del finanziamento dei servizi sociali di ciascuna Regione al suo gettito fiscale». La conseguenza sarebbe la seguente: «a più o meno breve scadenza l’intero Centro Nord della Penisola diventerebbe un Paese a sé». Anzi, no! Perché «è forse già così ora». Il che suona come la critica più radicale al regionalismo italiano in generale e in particolare”, il quale avrebbe – da sempre – minato l’unità nazionale. La causa immediata del divario tra Regioni del Nord e del Sud starebbe nella riforma costituzionale del 2001: da allora, «l’ordinamento non prevede, tranne casi eccezionalissimi, alcuna forma di controllo e di sanzione effettiva». La causa remota – strutturale – la si dovrebbe rinvenire nell’esistenza di «gruppi dirigenti inetti e spesso moralmente opachi». Infatti, «La verità è che l’esistenza dell’ordinamento regionale ha potentemente contribuito a murare le società meridionali nel carcere della loro storia antica fatta di arretratezza, ma soprattutto di assenza di qualunque tradizione di buongoverno». Il Sud è nel «dominio di consorterie politiche». Con il regionalismo, «il Mezzogiorno ha perduto qualunque posto e voce sulla scena nazionale ed è ripiombato in una solitaria impotenza».
La pubblica amministrazione è stata travolta dalla meridionalizzazione dello Stato. I meridionali sono portatori di una cultura giuridica che prevede il primato della forma sul contenuto. Il risultato non conta
Il mio punto di vista è radicalmente diverso e lo spiego in poche parole. In primo luogo, mi domando se la soluzione di problemi, che risalgono alla notte dei tempi, si possa dare riaffermando il centralismo. Il centralismo fascista, magari, a proposito del quale la Sottocommissione Finanza – Commissione Economica del Ministero per la Costituente osservava come l’“ordinamento vigente” (nel 1946) fosse sperequato ed inefficiente. E vi fosse una endemica «inefficienza del sistema dei controlli», abbinata ad una «eccessiva uniformità e rigidità delle norme». Si tratta di conseguenze che hanno una loro specifica causa. Risiede – come ho ricordato più volte, con le parole di Giuseppe De Rita – nel fatto che «la pubblica amministrazione è stata travolta dalla meridionalizzazione dello Stato». «I meridionali sono portatori di una cultura giuridica che prevede il primato della forma sul contenuto. Il risultato non conta». E si deve aggiungere che numerose cariche ai vertici dello Stato e i vertici della burocrazia romana non sono certo nelle mani del Lombardo-Veneto.
In terzo luogo, ci si dimentica di come stanno le cose. La spesa pubblica regionalizzata (lo dice la Ragioneria Generale dello Stato) dimostra che sono fanalini di coda, nella ripartizione delle risorse pro capite, proprio le Regioni Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, in nome del principio costituzionale di solidarietà. Dunque, chi ha di più dà a chi ha di meno. Ma lo fa in nome della spesa storica, che è ritenuta il criterio generatore del massimo livello di inefficienza (Mario Draghi e Alberto Quadrio Curzio). Questo criterio lo si ritrova, nonostante tutto, ribadito – perché voluto da Roma – nelle bozze di accordo. Insomma, continuiamo pure nello sperpero e ricorriamo alla categoria del lineare-orizzontale, che privilegia non l’eguaglianza, ma l’egualitarismo. Ovvie le conseguenze.
Fin dalla loro istituzione, le Regioni ordinarie sono apparse tra loro diverse: diseguali (Livio Paladin). Le differenze, invece di ridursi, sono andate aumentando, rendendo in tal modo eterno il rapporto di dipendenza del Sud dal Nord (Mario Draghi). Tutto ciò, con l’avallo sistematico della Corte costituzionale, che ha risolto i giudizi secondo il parametro delle competenze formali, omettendo di considerare l’ottica del risultato, del buongoverno e della buona amministrazione. Il fatto è che, per governare e amministrare bene, è necessaria una classe dirigente almeno decente. Galli della Loggia considera l’elité politica meridionale formata da “gruppi dirigenti inetti”. Chi li elegge? Non credo il Lombardo-Veneto, ma i cittadini del Meridione, i quali debbono trovare al loro interno le energie morali per rigenerare le istituzioni.
Sotto questo profilo, gli esempi non mancano. Anzi, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Penso ai giudici Borsellino, Chinnici e Falcone. E, poi, a Peppino Impastato e a Peppe Diana. E perché no? a Salvo D’Acquisto: brigadiere dei carabinieri, fucilato a 23 anni dalle truppe tedesche a Torre di Palidoro, vicino a Roma, essendosi offerto di salvare la vita ad un gruppo di civili durante un rastrellamento. La secessione dei ricchi non esiste. È una formula che copre malgoverno e inefficienze addebitabili a chi dovrebbe rendere il conto. Il Paese ha estrema necessita di “federare” le genti migliori del Sud, del Centro e del Nord, lasciando che le une “competano” con le altre: civilmente e responsabilmente. Sarà anche un caso, ma il termine “responsabilità” non compare mai nel fondo di Ernesto Galli della Loggia.