Tutti sappiamo – o pensiamo di sapere – che cos’è la canzone italiana. Ma che cosa rende «italiana» una canzone? «Felicità», siamo tutti d’accordo, suona come una tipica «canzone italiana», al punto che potremmo definirla «all’italiana». E allora «Via con me» di Paolo Conte, coeva eppure lontana miglia e miglia dal successo sanremese di Al Bano e Romina, non lo è? Jacopo Tomatis parte da qui, dal ripensamento delle idee più diffuse sulla canzone italiana, per scriverne una nuova storia. Storia culturale della canzone italiana ripercorre i generi e le vicende della popular music in Italia ribaltando la prospettiva: osservando come la cultura abbia pensato la canzone, quale ruolo la canzone abbia avuto nella cultura e come questo sia mutato nel tempo. Con la consapevolezza e l’ambizione che fare una storia della canzone in Italia non significa semplicemente raccontare la musica italiana, ma contribuire con un tassello importante a una storia culturale del nostro paese.
Un estratto da Storia culturale della canzone italiana di Jacopo Tomatis (Il Saggiatore)
Musiche (e) giovani alla metà degli anni sessanta
Media e comunità giovanile
Quelli che seguono il boom economico sono, in Italia, gli anni della «congiuntura». Nel giro di un paio di estati fra il 1963 e il 1964 vengono meno tanto l’ondata di crescita economica quanto – a livello politico – gli auspici per il riformismo del centro‑sinistra; nell’ambito delle pratiche musicali si assiste invece a una sorta di onda lunga delle innovazioni tecnologiche, di consumo ed estetiche avviate negli anni precedenti. A posteriori è facile considerare questo periodo come una fase di transizione: tale è nella periodizzazione canonica e in molta storiografia, per cui gli anni dopo il 1963‑64 sembrano una sorta di preparazione, di preludio alla stagione del Sessantotto, e tale sembra essere, almeno in parte, anche nelle vicende della popular music nazionale. Per un verso, le continuità con le modalità di diffusione e fruizione della musica nel periodo precedente sono ben evidenti. Le stagioni musicali sono ancora scandite dall’arrivo dei nuovi balli. Sanremo, superato sulla breccia dell’onda il suo primo decennio di vita, è il principale punto di riferimento dell’industria musicale. I juke box e i 45 giri impazzano. D’altro canto, il successo clamoroso dei Beatles e di altri gruppi inglesi – il maggiore elemento di novità di questi anni – modifica le geografie della popular music globale, mettendo al centro della mappa l’Inghilterra, e trasforma il rapporto dei giovani italiani con la musica. Di poco successivo è il boom italiano del folk e di Bob Dylan: la figura del cantautore ne esce rivoluzionata, e così le aspettative che a essa sono connesse. Su questo sfondo nuovo e dai colori sgargianti, i caratteri più «italiani» della canzone sanremese risaltano ancora più distintamente e appaiono decisamente retrò. E tuttavia, la British invasion e il folk rock americano sono ancora letti da molti interpreti di quel periodo attraverso paradigmi ben noti. Non sono altro che le ennesime mode d’importazione che da sempre attecchiscono in Italia: un drammatico segno dei tempi, l’emblema della rovina della gioventù e fonte di panico morale – da destra; un drammatico segno dei tempi e l’indice della subdolità del Capitale – da sinistra. Tuttavia, è proprio nel segno di un’opposizione a tale tipo di letture schematiche che le estetiche della canzone si avviano in questi anni verso una profonda ristrutturazione, che culminerà intorno al 1967‑68.
La tesi del periodo di transizione trova riscontro anche in alcuni momenti di discontinuità riconoscibili intorno alla fine del decennio, e che giustificano la scelta di trattare questi anni – il «cuore» degli anni sessanta – come dotati di caratteristiche proprie e coerenti, anche dal punto di vista musicale: la morte di Luigi Tenco nel 1967 e il suo corredo di significati simbolici e di ricadute pratiche; il Sessantotto, la nascita del movimento studentesco (le cui prime avvisaglie sono ben riconoscibili già dagli anni precedenti) e le sue conseguenze sul mainstream della canzone; la ridefinizione globale del rock e delle sue estetiche. Lo stesso 1967 è anche, in tutto il mondo, l’«anno dell’elevazione dell’album rock al ruolo impegnativo e scomodo di opera d’arte», soprattutto grazie alla strada tracciata da Beatles, Rolling Stones, Jimi Hendrix, Frank Zappa, Bob Dylan e altri. Dopo il 1967‑68, in effetti, è facile documentare una radicale riorganizzazione del sistema dei generi italiano, che si consuma in un paio d’anni appena e che prepara la stagione degli anni settanta.
Il rinnovamento delle categorie con cui si classifica e valuta la musica alla metà degli anni sessanta si consuma per intero nel campo delle musiche giovanili, da poco costituitosi. È questo il primo momento in cui si può parlare a ragion veduta di una comunità giovanile italiana dotata di un’autocoscienza di sé – ovvero, che immagina e descrive se stessa nei termini di una «comunità». La prima ondata di rock and roll aveva lambito soprattutto i ceti medio‑alti e gli abitanti dei grandi centri urbani. Già negli anni immediatamente successivi, e in maniera netta con il successo degli urlatori, si era instaurato un collegamento ampiamente condiviso a livello generazionale fra un genere musicale e una generazione. È però solo nei primi anni sessanta che più decisamente si assiste alla «prima epifania» del giovane come «nuovo soggetto sociale». Questo inedito protagonismo giovanile è strettamente connesso con «la rappresentazione del fenomeno che gli strumenti di comunicazione […] diedero, e tutt’oggi danno, di questi comportamenti». La costruzione sociale di una «classe giovanile» è cioè anche – e soprattutto – un fenomeno mediale (al quale, come abbiamo visto, non sono estranee rappresentazioni incentrate su teppismo e devianza). Una «comunità» – è stato suggerito – esiste quando ha un luogo dove incontrarsi. Il luogo non è necessariamente uno spazio fisico: un qualche tipo di spazio virtuale condiviso è necessario alla «costruzione simbolica della comunità», o alla sua «immaginazione». È facile osservare come, a partire in particolar modo da questi anni, siano proprio i media a fornire alcuni di questi «spazi» ai giovani italiani.
Abbiamo già parlato del ruolo di juke box e di tecnologie di ascolto privato come il mangiadischi e la radio a transistor (spesso adattate nell’uso all’ascolto collettivo) nelle forme della socialità giovanile, così come si è detto dell’importanza di film con soggetto e target adolescenziali per la costruzione di un immaginario condiviso dai giovani italiani. Bisogna però riconoscere una «discordanza significativa nel sistema dei media»: l’industria cinematografica e quella del disco immettono sul mercato prodotti esplicitamente pensati per un pubblico di giovani già dalla fine degli anni cinquanta, e i primi musicarelli di quel tipo risalgono al 1959; gli altri media invece si adeguano solo qualche anno dopo. È un ritardo che ci chiarisce come la costruzione simbolica di una comunità giovanile si completi solo dopo il salto del decennio, e in particolare dal 1963‑64.
Il ritardo della televisione e della radio pubbliche è più facilmente spiegabile per la loro vocazione ecumenica e rassicurante, per il target più indifferenziato, e per l’inerzia di un sistema produttivo (quello della Rai) saldamente controllato dalle forze di governo, tendenzialmente conservatore, monopolistico e dunque meno vincolato all’agenda dell’industria musicale globale. Più sorprendente, e dunque degno di attenzione, è il ritardo della carta stampata: riviste per adolescenti e giovani a carattere popolare e leggero, incentrate sulla musica – che sarebbero state la sede più ovvia per trattare e promuovere film e dischi pensati per il medesimo target – non escono in Italia prima della fine del 1963. Negli anni precedenti era toccato a rotocalchi popolari ad alta tiratura, a tema musicale come Sorrisi e canzoni e Il musichiere, o più generalisti come Grazia o Oggi, ospitare articoli sui nuovi divi dei ragazzi. Tuttavia, il taglio dei pezzi, le inserzioni (e, nel caso di Sorrisi e canzoni, gli stessi risultati dei referendum di popolarità) confermano come la readership ideale di quelle pubblicazioni non sia in questi anni quella dei giovanissimi. Si tratta piuttosto di riviste pensate per la famiglia intera, anche se è facile riconoscere un crescente interesse per gli adolescenti in coincidenza con l’uscita dei primi prodotti esplicitamente pensati per quel target, urlatori in primis. Le riviste per adolescenti si affermano, tuttavia, con grande rapidità, a dimostrazione di una domanda già esistente per questo tipo di discorsi. L’apparizione e il successo di queste pubblicazioni, in un momento in cui la stampa manteneva la sua centralità nel panorama dell’informazione, ha probabilmente un ruolo nel favorire la definizione di una subcultura giovanile attraverso una «secessione dai luoghi canonici dell’informazione adulta».
Lo sviluppo di questi nuovi spazi si può spiegare, plausibilmente, anche in parallelo alla crescita del livello di scolarizzazione e alle innovazioni nella scuola, a sua volta in stretto legame con la pressione demografica. È difficile, «senza le peculiarità della scuola italiana», comprendere i grandi mutamenti impressi dai movimenti studenteschi, e più in generale «le molte correnti di cambiamento e innovazione» fra anni sessanta e settanta. Ancora nel 1961 solo il 18% della popolazione nazionale parla italiano regolarmente. Al 1962 risale l’introduzione della scuola media unica, che insieme agli effetti dell’incremento demografico postbellico garantisce sempre di più al ceto medio e alle fasce povere della popolazione la possibilità di accedere a livelli più elevati del sistema formativo. Già all’inizio del decennio, comunque, gli iscritti alla scuola media sono il 21,3% dei giovani in quella fascia d’età, il doppio rispetto a dieci anni prima.9 L’aumento della scolarizzazione posticipa, da un lato, l’ingresso nel mondo del lavoro di molti giovani. Dall’altro, si accompagna alla lenta crescita degli iscritti all’università, il cui numero esploderà definitivamente con la liberalizzazione dell’accesso all’inizio degli anni settanta. In virtù di questi cambiamenti, la fascia d’età in cui si può essere «giovani» – e si dispone di tempo lasciato libero dalla scuola – si amplia.
L’inizio della scolarizzazione di massa promette agli imprenditori nel settore culturale di poter disporre di un numero maggiore di giovani alfabetizzati (e dunque di potenziali lettori) nel giro di pochi anni. La prima rivista italiana per adolescenti, Ciao amici, comincia le pubblicazioni alla fine del 1963, prendendo a modello l’omologa pubblicazione francese Salut les copains, varata un anno prima. Viene lanciata come mensile, diventando bisettimanale nel luglio del 1965, e settimanale dal marzo del 1966. La redazione è a Milano. Nel 1965 debutta Big, «il settimanale giovane», con un target leggermente più maturo (è pensato soprattutto per i ragazzi del liceo), e un tono leggermente più spregiudicato. L’editore di Big è Saro Balsamo, noto negli stessi anni per alcune pubblicazioni per adulti come Men, Playmen e Supersex. Nel suo periodo d’oro, la rivista arriva a vendere quasi 4‑500mila copie. Nel 1966 comincia le pubblicazioni Giovani, inizialmente come inserto di Marie Claire, e poi come giornale a sé. Nel 1967 l’assorbimento di Ciao amici da parte della Balsamo Editore prelude alla fusione delle due testate nel 1968: Ciao Big cambierà presto nome in Ciao 2001, diventando una delle più popolari riviste di musica degli anni settanta. Giovani modificherà la testata in Qui giovani nel 1970, e proseguirà le pubblicazioni fino al 1974.
La differenza di queste riviste rispetto a quelle degli anni precedenti è netta, e riguarda sia il target, sia lo stile di scrittura, sia l’organizzazione dei contenuti. Ciao amici, Big e Giovani – per limitarsi all’analisi delle tre maggiori – funzionano come «riviste interattive» che aprono spazi fino ad allora impensabili alla collaborazione dei lettori. Naturalmente, la rubrica delle lettere non era una novità, nemmeno per una rivista di musica: Sorrisi e canzoni la prevede da subito, e già in epoca fascista Il canzoniere della radio aveva la colonna «Zio radio», in cui i «radionipoti» potevano richiedere la pubblicazione di testi di canzoni. Ciao amici e Big, tuttavia, riservano un inedito numero di pagine a questi servizi, e sono molte le rubriche che chiamano in causa direttamente i lettori. Si compilano classifiche discografiche basate sulle loro preferenze, si ospitano inserzioni per scambiare dischi, fotografie e per trovare amici di penna, si dà spazio a poesie e racconti. Grande successo riscuotono le rubriche di consigli sentimentali: sarebbe possibile (e di certo interessante) scrivere una storia della morale sessuale in Italia seguendo la posta di queste riviste, che offrono consigli spesso piuttosto avanzati e progressisti, considerati i limiti e i vincoli di pubblicazioni di questo tipo. Il caporedattore di Big Sergio Modugno ha ricordato il successo della rubrica «Cara Paola», tenuta da Paola Dessy, che a un certo punto della sua storia riceveva circa duemila lettere a settimana, e che grazie alla linea progressista della rivista poteva affrontare anche temi «caldi» come il sesso prematrimoniale, gli anticoncezionali o i problemi affettivi in famiglia. Anche Ciao amici aveva la sua omologa rubrica di consigli, firmata da Luciano (Giacotto). Ampio spazio veniva dato, per esempio, alle fughe di casa, avvertite come simboliche di un malessere adolescenziale diffuso (che i Beatles immortaleranno, nel 1967, in «She’s Leaving Home», e i Pooh – l’anno successivo – in «Piccola Katy»).
L’«interattività» riguarda anche il lavoro degli stessi giornalisti: spesso le redazioni accolgono in sede ospiti famosi, puntualmente ritratti in foto, e tengono aggiornati i lettori su quanto avviene dietro le quinte. Tanto il giornalismo musicale «pop» quanto lo scrivere per i giovani, o il condurre trasmissioni per quel target, sono – alla metà dei sessanta – professioni tutte da inventare. È in questi contesti che nasce la professione del critico pop in Italia. Se le firme fisse di Sorrisi e canzoni erano poco più che nomi ricorrenti, quelle di Big e Ciao amici (Luciano Giacotto, Fabrizio Cerqua, Fabrizio Zampa, Sergio Modugno, Piero Vivarelli…) diventano personaggi da seguire, talvolta anche in radio, ognuno con un suo stile, suoi gusti e sua specializzazione: un elemento che sarà una costante delle riviste degli anni settanta. Con la stessa strategia si spiegano anche le molte rubriche o gli spazi occasionali affidati a divi «giovani»: il cantante Adamo, per esempio, cura una colonna della posta su Ciao amici.
Soprattutto su Big (e quindi dal 1965) si rilevano anche caute aperture alla politica. La rivista ospita un editoriale fisso, su temi di attualità, intitolato «Sveglia ragazzi!». L’orientamento è quello di un generico pacifismo e antimilitarismo apartitico, spesso in forma di invettiva contro il mondo adulto: una «stringata cronaca priva di approfondimenti» che tuttavia costruisce «l’impalcatura di una ideologia […] sorretta da un minimo comun denominatore puramente anagrafico». Lo scrivono, di volta in volta, il direttore Marcello Mancini, il caporedattore Sergio Modugno, o il redattore Fabrizio Zampa, che ne ha ricordato la libertà e l’assenza di censure, «chi aveva qualcosa da colpire poteva farlo in santa pace». Una carrellata su titoli e occhielli dà un’idea di soggetti e tono: «Roba buona solo per vecchie zie»; «Parrucconi e benpensanti non ci lasciano in pace»; «Tiriamo il collo alla cicogna», «Il sesso è una cosa fisiologica, naturalissima»;18 «Dobbiamo far capire a tutti che non abbiamo niente da imparare da chi ha sbagliato più di noi e prima di noi», e via così. In situazioni particolari, le riviste prendono anche posizioni nette: è il caso dello scandalo della Zanzara, il giornalino del liceo Parini di Milano, che nel 1966 è al centro di una polemica scatenata da un articolo‑inchiesta sul tema della sessualità. Big, tramite la penna di Piero Vivarelli, si scaglia direttamente contro le strumentalizzazioni politiche del caso.
Oltre allo spazio virtuale garantito dalle rubriche, Ciao amici, Big e Giovani costruiscono il proprio seguito anche nel mondo reale, organizzando club di supporter e favorendo l’incontro fra i lettori in appositi «meeting», anticipatori dei primi festival musicali, che le stesse riviste cominceranno a organizzare qualche anno dopo. I Ciac (acronimo per Ciao Amici Club) si diffondono in tutta Italia e contano alla fine del 1966 circa 28mila membri in numerose sedi, che riferiscono delle loro attività su ogni numero in una rubrica dedicata. Diecimila sono invece gli associati al club di Giovani nel 1966. Offerte di merchandising ufficiale e sconti accompagnano queste iniziative: l’appartenenza al Big Clan è garantita da una tessera inclusa in ogni uscita, con adesivi da ritagliare e incollare sulla «Supporters card». È un’altra sostanziale novità, che sfrutta – in maniera piuttosto ingenua – il nascente meccanismo identitario legato ai consumi: «Migliaia di amici devono avere le maglie. Migliaia di amici hanno già la maglia», recita una pubblicità ricorrente su Ciao amici nel 1964, che propone la T‑shirt ufficiale della rivista (Figura 5.1).
Anche in conseguenza del successo di queste testate, e in stretta collaborazione con esse, la Rai si decide a varare le prime trasmissioni dedicate ai giovani. Bandiera gialla, condotta da Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, debutta nell’ottobre del 1965 il sabato pomeriggio, sul secondo canale della radio. Dall’anno successivo comincia Per voi giovani (condotta all’inizio da Arbore e in seguito da Paolo Giaccio), mentre il cantautore Herbert Pagani trasmette sulle frequenze di Radio Montecarlo (nata nel marzo del 1966, e che raggiunge buona parte dell’Italia nord‑occidentale e della costa del Tirreno) uno show in lingua italiana con target analogo, Fumorama, sponsorizzato dalla Muratti Ambassador. Fumorama viene ritrasmesso da Radio Capodistria, insieme ad altri programmi musicali in italiano, ascoltati lungo la costa adriatica e nel Triveneto fino all’Emilia Romagna: è anche nel tentativo di conquistare un target giovanile che si consumano le prime sfide al monopolio della Rai sul territorio nazionale. Per fidelizzare la propria audience, queste trasmissioni mettono in atto strategie interattive analoghe a quelle delle riviste. I dischi presentati a Bandiera gialla sono votati da un pubblico di ragazzi in studio, e vengono spesso immessi sul mercato con diciture come «Vincitore a Bandiera gialla», o «Disco giallo». Herbert Pagani è una presenza fissa delle riviste per giovani, e tanto Arbore quanto Boncompagni vi tengono rubriche, che pubblicano anche le scalette delle trasmissioni. Bandiera gialla, oltre a ricevere e trasmettere le ultime novità discografiche dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra, sembra godere anche di un minore controllo nel poter proporre «dischi che piacciono ai giovani e non soltanto quelli approvati dalla commissione di ascolto della Rai». La televisione segue con leggero ritardo: solo nel 1967 parte Diamoci del tu, con Giorgio Gaber e Caterina Caselli, che da Bandiera gialla mutua toni e target.
La secessione dagli spazi della cultura degli adulti avviene anche grazie a un crescente numero di riviste più esplicitamente subculturali (se non direttamente controculturali), associate a gruppi politici o movimenti antagonisti, come Mondo Beat, Onda Verde o Urlo Beat. Queste testate, e altre più effimere, pur nella loro diffusione a livello locale e nonostante la bassa tiratura, raccontano della vitalità di alcuni gruppi pacifisti e alternativi che sono stati sovente oggetto di attenzione da parte degli storici, oltre che di dettagliati racconti da parte dei protagonisti diretti. L’attenzione è giustificata anche dalla copertura che la stampa ufficiale ha riservato a queste testate negli anni della loro attività, le cui proporzioni tradiscono il diffuso timore con cui la società civile guardava a tali fenomeni. A queste pubblicazioni vanno senz’altro aggiunti i molti giornalini liceali, a testimonianza del fermento che attraversa il mondo giovanile in questi anni. Tuttavia, facendo a meno di quello sguardo snobistico con cui la critica musicale le ha giudicate a posteriori, è bene non sminuire il ruolo delle riviste più pop nella costruzione di un soggetto giovanile con certe caratteristiche. Non si vuole qui affermare che siano Big e Ciao amici e il loro rapporto sistemico e interattivo con programmi come Bandiera gialla e con la discografia a creare una consapevolezza di «classe» fra i giovani italiani «prima della rivolta». Tuttavia nelle ricostruzioni dei prodromi politico‑sociali del Sessantotto è stato assegnato un grande spazio alle posizioni di avanguardia di alcuni «intellettuali eretici» della sinistra, e alla pubblicazione di riviste politiche di grande influenza ma la cui circolazione rimane marginale e limitata alle élite intellettuali: è il caso dei Quaderni Piacentini, dei Quaderni Rossi e – per certi versi – delle citate riviste legate alla controcultura. È allora opportuno riconoscere un ruolo alla stampa per giovani a tema (soprattutto) musicale e alla radio nell’affermazione di una autocoscienza della comunità giovanile alla metà degli anni sessanta: questi canali sono, in virtù del loro peculiare taglio editoriale, e della centralità che riservano alla musica in quanto prodotto giovanile per eccellenza, spazi inediti di socialità, laboratori per l’immaginazione e la costruzione simbolica di una comunità di pari.
Che la popular music abbia un ruolo centrale nel nuovo protagonismo dei giovani italiani è da subito riconosciuto anche da alcuni intellettuali. Nel gennaio del 1964 L’Europeo aveva avviato una serie di articoli sui gusti e gli stili di vita dei giovani italiani, a testimonianza di come il soggetto fosse di stretta attualità. La coincidenza di questa inchiesta a puntate con il primo numero di Ciao amici (dicembre 1963) è difficilmente casuale. La prima uscita è naturalmente dedicata alla musica e tocca a Roberto Leydi, che rileva subito il legame speciale che si sta instaurando fra i giovani e le «loro» canzoni, un legame tale da apparirgli quasi caratteristico dello spirito dell’epoca.
I ragazzi, i quindicenni, i sedicenni, dicono, riferendosi a un certo repertorio di successo, «le nostre canzoni» e in queste «loro» canzoni si identificano con uno slancio la cui sincerità non può essere messa in dubbio.
Ancora nella conclusione, Leydi torna sul punto:
[…] avremmo sospettato, osservando soltanto dal di fuori il comportamento dei giovani, che la identificazione fra loro e la canzone di un certo tipo (quella che chiamano, con ingenuo orgoglio, la «nostra» canzone) fosse così profonda?
Tanto le considerazioni di Leydi quanto il tono generale delle risposte che gli intervistati danno nei diversi articoli sembrano confermare il punto: i giovani italiani, in quel momento, si immaginano come una comunità, sono una generazione nuova e diversa. Un elemento fondamentale di questa autorappresentazione è quello che Leydi definisce «orgoglio»: l’appartenenza a una comunità giovanile, dal punto di vista degli stessi giovani, è presentata come un valore in sé. Un indizio importante di questo sentimento, di questa nascente ideologia della comunità giovanile, viene da un’espressione usata a più riprese dagli intervistati e da Leydi stesso: «musica nostra».