Ci sono fatti politici che cambiano la storia dei partiti e di tutti ricordiamo il nome – la Bolognina, il Lingotto, Fiuggi, la prima Leopolda – perché segnano un prima e un dopo: il referendum del M5S sul caso Salvini-Diciotti appartiene a questa categoria, anche se sarà più rapido di un congresso e sicuramente più ambiguo, visto che le molte critiche alla formulazione del quesito già fanno prevedere qualche contestazione ai risultati, soprattutto se risultassero favorevoli al leader della Lega. E tuttavia, almeno a leggere i commenti sul Blog delle Stelle, lo stop al processo – se ci sarà – appare già largamente metabolizzato dai quadri locali e persino dalla base militante, che riversa nel dibattito uno straordinario campionario di inviti alla prudenza, alla realpolitik, alla difesa degli assetti di governo e di “tutto ciò che abbiamo conquistato fino ad ora”.
Si nasce incendiari e si muore pompieri, dice un noto aforisma, ma neppure Pitigrilli avrebbe potuto immaginare una così rapida mutazione nel Movimento che solo un paio di mesi fa stava per condannare alle dimissioni la sua sindaca di maggior pregio, Virginia Raggi, per un banale errore materiale nell’approvazione di una nomina (peraltro di sua esclusiva pertinenza).
Magari domani le urne virtuali della Casaleggio rovesceranno il tavolo, ma il cambio di pelle del M5S è evidente già dall’operazione, sofisticata e ingenua al tempo stesso, con cui si è costruita la consultazione: dall’autodenuncia per correità di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio alla bizzarra formulazione della domanda (per dire Sì all’inchiesta bisogna votare No: pure Beppe Grillo ha protestato) è chiaro il desiderio dei vertici di chiudere la vicenda con un Non Possumus, fornendo ai simpatizzanti le basi morali – gli alibi, direbbe qualcuno – per confermare la scelta.
Si nasce incendiari e si muore pompieri, dice un noto aforisma, ma nessuno potuto immaginare una così rapida mutazione nel Movimento che solo un paio di mesi fa stava per condannare alle dimissioni la sua sindaca di maggior pregio, Virginia Raggi, per un banale errore materiale nell’approvazione di una nomina
Ieri fonti del M5S sono arrivate al punto di diffondere timori per una possibile caduta del governo in caso di un esito sfavorevole a Salvini, e forse è qui, nella terrorizzante precognizione di una crisi, che va cercata l’origine della trasformazione grillina. Il Movimento è da tempo consapevole che il clima da ultima spiaggia nel quale si decise per l’incarico a Conte è svanito e che il suo terzaforzismo oltre destra e sinistra non è più una scelta vincente. I voti di destra stanno tornando a casa ed è probabile che le elezioni in Sardegna confermino la tendenza. La sinistra si sta riorganizzando e in qualche modo ha fermato l’emorragia di consensi verso scelte di protesta. L’opzione governista – una strenua difesa degli attuali equilibri, costi quel che costi – è l’unica possibilità per evitare di essere ricacciati all’opposizione da nuove e future intese a cui lavorano un po’ tutti…
L’indizione del referendum, insomma, a prescindere dai suoi risultati, segna l’approdo grillino all’età adulta dei partiti, quella in cui si calcolano interessi e convenienze dei gruppi dirigenti e si cerca di perseguirli nel modo più indolore possibile, in questo caso attribuendo alla base un potere decisionale ma facendo di tutto per orientarla nella direzione desiderata. Ciascuno giudicherà questa svolta come preferisce. Chi era affezionato ai dogmi rivoluzionari del Movimento ci vedrà una rinuncia alla purezza delle origini e al sogno del Grande Cambiamento. Chi li ha votati per stanchezza, vendetta contro una destra e una sinistra immobili, desiderio di rivalsa, vezzo intellettuale, ha ora la dimostrazione che la demagogia ribelle in Italia è quasi sempre fuffa, si sgretola al primo contatto col potere trasformandosi nel suo esatto contrario: istinto di sopravvivenza e tattica conservatrice.