Per le strade di Teheran il primo febbraio 1979 la rivoluzione arrivò a bordo di una Chevrolet Blazer, un mito dell’America a quattro ruote.
Forse bisognerebbe raccontarlo anche al vicepresidente Usa Mike Pence che qualche giorno fa a Varsavia avrebbe voluto fondare – senza gran successo – L’Iran, 40 anni dopo, è sempre sul fronte di guerra e degli eventi internazionali.
«Posteggiai la mia auto sotto le ali dell’aereo che aveva riportato l’Imam Khomeini dall’esilio in Francia», mi raccontò il suo autista di allora Mohsen Rafiqdoust, che poi fu uno dei capi Pasdaran, le guardie della Rivoluzione, e quindi leader della Fondazione di Martiri, una delle leve più potenti dell’ayatollah economy.
La folla premeva da tutte le parti e a un certo punto la Chevrolet cominciò a sobbalzare, la gente aveva sollevato l’auto e la portava sulle braccia. «Mi resi conto nel tragitto di essere passato sopra la gamba di un anziano. Ma l’uomo non ne voleva sapere di spostarsi. “Quanto devo pagare, implorava, per avere avuto l’onore di essere passato sotto l’auto dell’Imam?».
La tappa più importante fu al cimitero di Behest-e Zhara dove Khomeini tenne il primo discorso senza però pronunciare mai la parola rivoluzione, come racconta Alberto Zanconato, per anni corrispondente da Teheran dell’Ansa, in un’ottima biografia di Khomeini appena pubblicata da Castelvecchi.
Il ritorno di Khomeini venne seguito da una folla di quattro milioni di persone. Diede il via al più importante movimento di massa dopo la seconda guerra mondiale, con una carica rivoluzionaria e popolare nella promessa di restituire agli iraniani dignità e giustizia sociale e il traguardo di ristabilire i valori della morale islamica in uno stato guidato dalla legge divina.
L’11 febbraio di 40 anni fa cadeva anche l’ultimo governo dello Shah, guidato da Shapour Baktiar. La fine della monarchia avvenne con una battaglia finale in cui i guerriglieri marxisti dei Fedayn del Popolo sconfissero in una base aerea la Guardia Imperiale.
Ci vollero quasi tre anni perché lo stato clericale riuscisse a eliminare marxisti, laici e islamici liberali in un Paese dove il partito comunista Tudeh aveva un milione di seguaci.
In marzo fu proclamata la repubblica islamica e un mese dopo venne costituito il corpo dei Guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran.
“Quanto devo pagare – implorava – per avere avuto l’onore di essere passato sotto l’auto dell’Imam?”
Se ne occupò un direttorio di cinque persone, tra cui Rafiqdoust, che il 4 aprile 1979 si recarono a Qom per presentare a Khomeini la nuova organizzazione. «L’Imam ci ascoltò attentamente e alla fine dichiarò: “È una buona idea, adesso che la rivoluzione è riuscita il nemico tenterà un colpo di stato utilizzando l’esercito come in Cile. Dobbiamo quindi contare sulle nostre forze”». In tre mesi i Pasdaran sostituirono le forze armate tradizionali.
Due eventi comunque decisero il destino della rivoluzione.
Il primo fu il 4 novembre 1979, la presa degli ostaggi nell’ambasciata americana – un mese prima che i sovietici invadessero l’Afghanistan – che segnò la rottura con gli Usa, non rimarginata neppure dall’accordo sul nucleare del 2015 voluto da Obama e stracciato da Trump.
Come andarono le cose me lo raccontò l’allora ministro degli Esteri Ibrahim Yazdi. «Chi sono questi studenti?», chiese Khomeini. «Dategli un calcione e rimandateli a casa». Ma l’Imam cambiò opinione quando vide masse di dimostranti entusiasti e annunciò che era cominciata una seconda rivoluzione, più importante della prima.
«Marg bar Amrika!», Abbasso l’America!: lo slogan gridato davanti all’ambasciata Usa in via Taleghani fu la svolta della rivoluzione, segnò la fine dei moderati e la prevalenza dell’ala radicale, l’inizio di un confronto con l’Occidente e di un isolamento internazionale da cui Teheran non è mai uscita, se non per un breve momento quando è stato firmato da Obama l’accordo sul nucleare del luglio 2015 da cui poi si è ritirato Trump.
Nello Shaat el Arab vidi dei giovanissimi, con le chiavi del Paradiso musulmano al collo e il coltello tra i denti affrontare a mani nude i carri armati iracheni e rotolarsi avvolti nei tappeti sui campi minati
L’occupazione dell’ambasciata fu il più grave errore della repubblica islamica, come mi spiegò un giorno a Teheran Ibrahim Asgarzadeh che ebbe un ruolo chiave nell’organizzare l’assalto come leader studentesco dell’Ufficio per il Consolidamento dell’Unità (Osu).
«Ancora oggi mio figlio ormai laureato, mi rimprovera quell’iniziativa che ha aperto allora la strada ai radicali e poi contribuito a prolungare la guerra contro l’Iraq. Ma non volevamo cambiare il mondo: doveva essere soltanto un’azione dimostrativa, una protesta contro le interferenze Usa nella politica iraniana. Sembrava quasi impossibile che l’amministrazione americana Carter accettasse passivamente la perdita di un alleato strategico come lo Shah. Temevamo che sarebbe entrata in azione come aveva fatto nel 1953 con il colpo di stato che sbalzò dal potere il leader nazionalista Mossadeq, che aveva nazionalizzato il petrolio. All’inizio pensavamo che l’occupazione potesse durare 48 ore, al massimo una settimana, ma le cose poi finirono fuori controllo».
L’altro evento fondamentale per la repubblica islamica nel settembre 1980 fu l’invasione irachena di Saddam Hussein: la guerra con un milione di morti durò otto anni e saldò al potere l’alleanza tra religiosi, bazarì e pasdaran. Fu quello il “fronte dei martiri” dove nello Shaat el Arab vidi dei giovanissimi, con le chiavi del Paradiso musulmano al collo e il coltello tra i denti affrontare a mani nude i carri armati iracheni e rotolarsi avvolti nei tappeti sui campi minati. La necessità di compattare il fonte interno fu decisiva per tenere la rivoluzione in sella.
Per comprendere la componente più militante e irriducibile dell’Iran di oggi si deve tornare su quel fonte dei martiri della guerra contro l’Iraq.
Dopo aver seguito per anni la guerra su entrambi i fronti arrivai sulla linea del cessate il fuoco in un punto denominato sulle mappe “312 Chawl zari”, a cento chilometri da Bakhtaran. Un soldato iraniano e uno iracheno stavano immobili di guardia nella stessa buca, scavata nella sabbia di un terrapieno, una fossa larga due metri e mezzo dove erano costretti a convivere dal mattina del 20 agosto 1988. Separati da una sottile intercapedine di terra e di pietre, con due coperte come giaciglio, si guardavano negli occhi scambiando mezze frasi e qualche sigaretta. Il punto 312 e quei due soldati in trincea erano la testimonianza della follia e dell’inutilità di un massacro che per il suo tributo di sangue aveva ricordato la prima guerra mondiale, le trincee sulle Ardenne e del Carso.
E la rivoluzione? Nel 1979 gli iraniani erano 40 milioni, ora sono 80, di questi 50 milioni hanno meno di 30 anni, un’intera generazione che non ha coltivato l’utopia khomeinista e neppure partecipato alla guerra contro Saddam. Un altro mondo.
Il fonte dei martiri non si esaurì con lo spegnersi della guerra: era entrato nell’ideologia e nell’iconografia del regime dei mullah. C’erano memorie indelebili: fanciulli e adolescenti dispersi nella polvere del deserto, inghiottiti nella paludi dello Shatt el Arab, esplosi nelle trincee di sabbia, disintegrati dall’artiglieria irachena. Il loro ricordo, dopo oltre una generazione, è ancora inciso nei graffiti dei muri di Teheran, nei tromp-l’oeil del regime, nei ritratti dai colori pastello sfumati dalla nube rosa dell’anidride carbonica che sovrasta la capitale dell’Iran. La loro effigie compare anche sulle banconote della repubblica islamica in una filigrana svalutata non soltanto dal mercato delle divise.
La guerra non era stata una vittoria ma l’Iran persiano dimostrò di sapere resistere agli arabi appoggiati dalle armi dell’Occidente e dai soldi delle monarchie del Golfo.
Da allora la repubblica islamica non si è mai fatta tentare dall’idea di piegarsi all’egemonia americana, alla potenza militare di Israele o a quella economica degli emiri: il petrolio ha fatto galleggiare un Paese che ha affrontato anche grandi movimenti di protesta interni come l’Onda Verde del 2009 che anticipò di due anni le primavere arabe.
L’Iran non solo ha resistito militarmente ma ha esteso la sua influenza in Iraq, in Siria, in Libano anche per gli errori clamorosi degli Usa che eliminarono i nemici di Teheran, Saddam Hussein e i talebani afghani. E sono stati ancora i pasdaran iraniani e le milizie sciite a fermare per primi l’Isis in Iraq nel 2014 e a tenere in piedi il regime siriano di Bashar Assad.
Ma la tensione tra radicali e moderati, la frattura che si provocò già nel 1979 su come gestire l’occupazione dell’ambasciata americana, persiste. Lo abbiamo visto anche in questi mesi.
Quando nel maggio 2018 gli Usa di Trump hanno abbandonato l’accordo sul nucleare (JCPOA) si è scatenato un dibattito interno all’Iran tra chi voleva uscire e chi no. La Guida Suprema Ali Khamenei – il successore nel 1989 dell’Imam Khomeini – ha sostenuto la linea dell’ala moderata del regime rappresentata dal presidente Hassan Rohani e del ministro degli esteri Javad Zarif. Ma ha aggiunto una postilla avvelenata, indicativa del livello dello scontro interno: condizionando l’intesa al fatto che l’Europa riesca a rimanere nell’accordo e ad aggirare le sanzioni economiche e finanziarie imposte dagli Stati Uniti. I radicali si sono messi sulla sponda del fiume ad aspettare un eventuale fallimento che accentuerà ancora di più l’isolamento.
E la rivoluzione? Nel 1979 gli iraniani erano 40 milioni, ora sono 80, di questi 50 milioni hanno meno di 30 anni, un’intera generazione che non ha coltivato l’utopia khomeinista e neppure partecipato alla guerra contro Saddam. Un altro mondo.
«La rivoluzione islamica – dichiarò allora l’Imam Khomeini – farà molto di più che liberare dall’oppressione e dall’imperialismo: creerà un nuovo tipo di essere umano». Ma dell’aspirazione a quella società ideale non è rimasta quasi traccia. Sono però sopravvissute le sue imperfezioni e l’Iran mostra quasi sempre un doppio volto.
Lo spiegava molto bene con una metafora il filosofo Dariush Shayegan: «La storia dell’Iran è come un pendolo che oscilla, a seconda delle stagioni, tra Occidente e Oriente». Ma quale sarà la prossima stagione persiana forse non lo decideranno soltanto a Teheran.