Diciamocelo in tutta franchezza, di questa faccenda del protezionismo verso le canzoni italiane, per altro vecchia di qualche anno e che sempre per altro non escluderebbe certo uno come Mahmood dai passaggi protetti, essendo Alessandro Mahmood tanto quanto i figli di Matteo Salvini, non ce ne frega un cazzo.
Le radio sono in buona parte aziende private, e giustemente hanno diritto di lavorare sulla propria programmazione con una certa autonomia, sempre non uscendo da regole che impediscano, per dire, di passare una canzone ogni cinque minuti. Diverso potrebbe essere il discorso relativo alle radio del servizio pubblico, ma diciamo che stiamo parlando di ascolti non esattamente centrali per quel che riguarda la radiofonia italiana, relegate come sono a metà e bassa classifica degli ascolti le reti RAI.
Nessuno riuscirà a imporre una quota italiana obbligatoria di canzoni alle radio italiane, e credo che la notizia vada presa con un certo giubilo.
Anche perché pensiamoci bene, e partiamo da uno come Mahmood. Fossimo costretti ogni tre canzoni, che so?, di Beyoncé, di Lady Gaga, ma anche Ed Sheeran o dei Muse, a sentirci qualcosa come Soldi di Mahmood non è che ne guadagneremmo molto a livello di ascolti. Anzi, considerando quanto siamo derivativi, e considerando pure che le produzioni del 99% dei dischi italiani sono in mano a due o tre produttori, saremmo in presenza di qualcosa che suonerebbe più o meno come quando il vicino di casa decide che è arrivato il momento di fare le pulizie di primavera mettendo in Repeat Don’t Cry For Me Argentina nella versione di Madonna, tre ore di rompimento di coglioni senza fine.
Sarebbe semmai il caso di imporre ogni tre canzoni del cazzo una bella canzone, tanto per marcare il territorio, inseguire l’alto e al limite riabituarci ai buoni sapori. Io, per parte mia, farei ben altro, tipo imporrei l’ascolto di Prince ai poveri dementi che ascoltano trap, tipo Metodo Ludovico, ricorrendo anche alle percosse, se necessario.
Questa cosa del protezionismo, del resto, è una boutade di pura propaganda, non andrebbe neanche presa sul serio.
Quello che invece va tenuto bene a mente e preso molto sul serio è altro.
Cioè che, archiviato il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, seppur non sopite le polemiche, resta il fatto che viviamo in una specie di regime monopolistico che da una parte vede un solo attore gestire oltre quaranta artisti tra grandi, medi e piccoli, per quel che riguarda i live, cioè la sola fonte di guadagno oggi nel music business (i conti fatti da più in tasca a Mahmood lo dimostrano, campione italiano di ascolti su Spotify e Youtube, ma con poche migliaia di euro lì lì per entrargli nel portafogli, Dio maledica lo streaming), e volendo anche il management, in maniera più o meno esplicita. Dall’altro c’è sempre il medesimo attore che si ritrova a essere interlocutore del servizio pubblico, come di quello privato, per quel che concerne la messa in onda in tv dei concerti dei suddetti artisti. E intendiamoci, fin qui la faccenda potrebbe anche essere digeribile.
Diventa invece del tutto indigesta nel momento in cui, come già raccontato in passato, quando però sembrava che la questione dei live in Italia non interessasse troppo l’opinione pubblica, l’attore in questione imbastisce uno story elling vagamente dopato, fatto di sold out che sold out non sono, di tour faraonici che finiscono spesso per essere bagni di sangue, spesso a discapito degli operatori locali, costretti a lasciare a casa madre gli incassi dei concerti destinati a incontrare il favore del pubblico, e a sobbarcarsi in prima persona quelli destinati a fallire (la faccenda è emersa allor quando qualcuno di questi operatori locali è uscita allo scoperto, forte del clamore delle nostre inchieste sanremesi).
Dopare il mercato, questo avviene, alza il valore degli artisti, e quindi alza anche il prezzo di mercato dei passaggi televisivi, nonché quelli degli sponsor. Gli stessi sponsor che spesso vengono usati proprio per riempire quei palasport e quegli stadi che altrimenti resterebbero spogli, ironia della sorte
La racconto meglio, e non credo sia difficile intuire che l’attore di cui sopra è la Friends and Partners di Ferdinando Salzano, azienda quantomai popolare, oggi, anche per il passante qualsiasi.
Prendiamo un artista X, che so?, Emma Marrone, da poco partita proprio con un tour.
Le si costruisce intorno un tour di 23 date, quello che per gli addetti ai lavori è l’ultimo step prima di tentare gli stadi. Quello che, sempre per gli addetti ai lavori, dovrebbe arrivare dopo tour meno impegnativi nei palasport e, risalendo più indietro nel tempo, dopo tour nei locali medio-grandi. Ecco, a Emma, usata come esempio di questo ragionamento, si costruisce un tour di 23 date, con un paio di date nei centri importanti, due al Forum di Assago, due al Palalottomatica di Roma. Si spaccia per sold out queste, anche per giustificare la doppia data. A vedere Ticketone, che per altro è della stessa proprietà di Friends and Partners, Vivo Concerti e Magellano Concerti, non risultano sold out, ma si sa che la gente è distratta, se gli dici una cosa con voce sicura tende a crederti. In realtà, se provi a andarci, vedi che i biglietti in biglietteria ancora li trovi, e per di più vedi che la coda alla cassa accrediti, quella destinata appunto ai biglietti a prezzi scontati, i cosiddetti biglietti promozionali, a quelli che ti regalano le banche, i supermercati, le radio che fanno i contest, i giornali come ViviMilano, è lunghissima. A volte di ore. Il concerto è iniziato e la fila sta ancora lì, con buona pace, per dire, dei giornalisti che di solito dovrebbero essere i soli fruitori di quel botteghino. È un modo, questo, di riempire gli spazi vuoti, contando per altro sul fatto che spesso gli sponsor se li prendono in blocco, come sponsorizzazione, e contando anche sul fatto che a quel punto la SIAE la si paga non sul prezzo pieno del biglietto, come avviene solitamente anche coi biglietti omaggio (che non possono però essere oltre il 5% del totale), ma in percentuale sul prezzo di emissione. Sempre per essere didascalici, se un biglietto promozionale lo dai a uno sponsor a prezzo di cinquanta centesimi, la SIAE la paghi su quei cinquanta centesimi. Poco conta, magari, che la sponsorizzazione è globale, e oltre ai biglietti ci mettono pure gli striscioni, i banner online e tutto il resto. Tanti saluti alla SIAE.Dentro poi, ma questi sono trucchetti facilmente sgamabili, si riempiono i palasport anche con metodi più terra terra, coprendo file vuote con teloni neri, che al buio non si notano, o mettendo il palco nel lato lungo del campo, così da rendere inutilizzabile molte più file senza far sembrare che ci siano buchi. Insomma, ci si arrangia. Chiaramente, andando nelle altre date del tour il problema non si pone. Le file restano vuote serenamente, nonostante anche in provincia si tenda a dare biglietti in regalo agli sponsor, alle radio, alle banche, ai supermercati. Ma i buchi in provincia si vedono serenamente, tanto la provincia è provincia, e chi se ne frega. Il tour va avanti a strappi, con foto messe sui social che hanno angolazioni come neanche nei film porno per far sembrare lunghi cazzi che lunghi non sono.
Stiamo sempre parlando in linea ipotetica, non del nuovo tour di Emma, non avendo noi il potere della chiaroveggenza.
Succede però che, finito il tour, i concerti finto sold out vengano venduti alle televisioni, parliamo di quella pubblica come di quella privata. Altro modo per far cassa, certo, e anche per creare allure. Ora, partendo dal presupposto che se Mediaset decide di comprarsi un concerto di Emma nonostante il tour non sia stato quel che ci hanno raccontato sono cazzi suoi, perché di azienda privata si tratta, il dubbio sorge quando a farlo è la RAI. Un po’ per quella solita faccenda che a gestire i contratti è la dottoressa Galvagni, mamma del braccio destro di Ferdinando Salzano, Veronica Corno. Un po’ perché se a comprarsi un concerto rivenduto come punta di diamante di un tour di successo è l’azienda pubblica noi che quell’azienda pubblica la sosteniamo, per altro forzosamente, con il canone potremmo anche sentirci vagamente presi per il culo.
Nel caso vi sfuggisse la faccenda dei tour dopati, e del perché dopare un tour sia utile, ve lo spiego ricorrendo al mondo del calcio, sempre parco nel regalarci metafore a buon mercato. Poniamo che la RAI sia il Milan di questo campionato. Una squadra con un gran blasone che però stenta a decollare. Poniamo che Ferdinando Salzano si rechi dalla dirigenza del Milan, che nello specifico potrebbe addirittura essere consanguineo del suo braccio destro, e gli mostri il palmares del proprio bomber. Gli faccia vedere un tabulato in cui risulta che il bomber in questione ha fatto decine di goal, gli si racconta di come abbia deliziato interi stadi, di come abbia portato alla vittoria questa o quella strada. I dirigenti del Milan si convincono dell’affare e lasciano Piatek al Genoa, comprando il bomber fortissimo descritto da Salzano. Peccato che in realtà il bomber in questione non sia un bomber. Non abbia fatto goal, non abbia fatto vincere partite, forse neanche esiste.
Il trucco è questo qui. E a volte il trucco prende talmente la mano da indurre a raccontare vere e proprie leggende metropolitane, finendo per portare negli stadi artisti che gli stadi non li riempirebbero neanche facendo miracoli, si pensi ai Modà, a Biagio Antonacci, a Fabrizio Moro che invece di fare l’Olimpico, come più volte pubblicizzato, ha fatto la curva dell’Olimpico, e si pensi al doppio San Siro di Laura Pausini.
Dopare il mercato, questo avviene, alza il valore degli artisti, e quindi alza anche il prezzo di mercato dei passaggi televisivi, nonché quelli degli sponsor. Gli stessi sponsor che spesso vengono usati proprio per riempire quei palasport e quegli stadi che altrimenti resterebbero spogli, ironia della sorte. Per la cronaca, gli artisti vanno sotto, ma si tengono gli anticipi, il promoter incassa da sponsor, tv e i biglietti che riescea vendere. Poi si ricomincia da capo. Nuovo giro, nuova inizione di fiducia.Ecco, a me sembra che questa sia faccenda più interessante rispetto al protezionismo radiofonico richiesto a gran voce dalla Lega.
Fortunamente, Dio volendo, questa resterà una frase da campagna elettorale, e almeno in radio non saremo costretti a sentirci Emma ogni due canzoni straniere, imposta per regio decreto. Anzi, sarebbe bello ipotizzare un mondo in cui i radiofonici, finalmente consci di essere parte di un sistema che sta ancora una volta favorendo il solito Salzano, comincino a non trasmettere più le canzoni degli artisti di questa partita di giro che avvantaggia uno a affama gli altri.
Così, di colpo, come in un sogno a occhi aperti da domani niente più passaggi radiofonici per Emma, Alessandra Amoroso, Ligabue, Ultimo, magari neanche più passaggi radiofonici per Mahmood, che tanto lo abbiamo capito tutti che è finito pure lui in quella parrocchia
Come dicono in quell’odioso spot: Non succede, ma se succede…