Calorie non vi temo: ecco i cinque fritti italiani per eccellenza

Se impanata e fritta è buona pure una suola di scarpa, si intende che il fritto sa conquistare il palato e anche l’umore. E infatti in Italia, da nord a sud, è diffusissimo. Dagli arancini alle olive ascolane, ecco cinque dei fritti più noti e gustosi

“Impanata e fritta è buona pure una suola di scarpa”. La battuta la dice lunga sulle capacità della frittura di conquistare il palato – nonché l’umore – di chiunque. La frittura, infatti, è una delle esperienze più golose da provare in cucina. In Italia lo sappiamo da secoli: tutte le cucine regionali del nostro paese conoscono una o più specialità fritte, sia salate che dolci, ad altissimo tasso calorico. Quasi sempre adatte come cibo da strada. Ne abbiamo selezionate cinque tra le più note e gustose.

Arancini siciliani

L’origine di questa pietanza potrebbe essere araba. Tra il IX e l’XI secolo, proprio gli Arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello. Nel XIII secolo, Giambonino da Cremona scriveva nel suo Liber de ferculis che gli Arabi erano soliti chiamare le loro polpette con un nome che rimandasse a un frutto in qualche misura simile: ecco allora gli arancini, ispirati all’agrume di cui l’isola era ed è ancora ricca.

Nel tempo, la forma più rappresentativa diventa quella a cono. Nella zona di Catania si sostiene che la forma a cono sia ispirata dall’Etna: la forma a punta ricorda infatti il vulcano. Tagliando la punta della pietanza appena cotta esce il vapore che ricorderebbe il fumo del vulcano, mentre la superficie croccante della panatura e il rosso del contenuto ne rievocherebbero la lava nei suoi due stadi, calda e fredda.

A Palermo e a Siracusa è molto diffuso l’uso dello zafferano per dare un colorito dorato al riso, molto compatto e nettamente separato dalla farcitura, contrariamente a quanto succede nella zona di Messina, dove si utilizza il sugo insieme allo zafferano. Gli arancini più diffusi in Sicilia sono quelli al ragù di carne, al burro (con mozzarella, prosciutto e besciamella) e agli spinaci. Inoltre, nel catanese sono diffusi anche l’arancino “alla norma” con le melanzane e quello al pistacchio di Bronte. La versatilità dell’arancino è stata sfruttata, in passato, per diverse sperimentazioni legate alle tipicità locali e, oggi, per offrire una sempre maggiore varietà di prodotto ai consumatori più curiosi.

Nella letteratura appaiono diversi riferimenti a questo prodotto gastronomico: dal romanzo I Vicerè di Federico De Roberto alla prima raccolta di racconti – Gli arancini di Montalbano – che Andrea Camilleri ha dedicato al suo celeberrimo commissario.

Panzerotto barese

Risalendo per la penisola è necessaria una sosta in Puglia. A Bari, infatti, troneggia il panzerotto.

Secondo alcuni, il panzerotto pugliese è nato a Bari intorno al XVI secolo, in concomitanza con la diffusione del pomodoro in Italia. Da allora, è diventato una delle celebrità della cucina pugliese. Quello che a Bari si chiama panzerotto, in Salento diventa calzone e in Campania pizza fritta. La sostanza, però, è la stessa, nonostante tantissime varianti.

Le massaie usavano preparare i panzerotti con gli avanzi della massa del pane. Erano delle pizzette chiuse all’interno delle quali mettevano pomodori e pezzi di formaggio: un piatto povero, dunque, che rappresentava la sostanziosa cena di molte famiglie che non potevano permettersi banchetti migliori.

Il vero panzerotto alla barese – è bene ricordarlo – è preparato con pasta da pizza farcita con mozzarella e pomodoro, chiusa a mezzaluna e poi fritta. Non è pertanto da escludere che le sue radici possano affondare anche in periodi precedenti, condividendo con la pizza gran parte della sua storia.

La ricetta originaria li vuole fritti nell’olio extravergine di oliva ma c’è anche una versione più light che prevede la cottura in forno. Gli ingredienti utilizzati sono semplicissimi: farina, olio, lievito, acqua e sale per l’impasto; mozzarella tagliata a cubetti e pomodoro per il ripieno classico. Tra le tante varianti, due sono quelle tipicamente “alla pugliese”: panzerotto ripieno di carne macinata, diffuso soprattutto a Bari, e quello con cime di rape stufate. C’è poi chi li adora con la ricotta forte, un formaggio morbido pugliese dal gusto pungente e leggermente piccante che viene aggiunto alla mozzarella. Oltre a quello tradizionale, ovviamente, ne esistono di diverse varianti.

Cuoppo napoletano

A Napoli il cibo da strada è di casa. Pratico, sfizioso, croccante e gustoso. E il primato spetta senza dubbio al “cuoppo fritto”, detto anche “O’ cuoppo napulitano” e, ancora, “cuppetiello” o “cartoccio”.

La frittura viene raccolta all’interno di un cono di carta paglia, ben chiuso ed arrotolato su se stesso, che consente di asportare il cibo e gustarlo comodamente per strada. La tradizione risale almeno al 1800, quando nella cucina popolare napoletana si utilizzavano questi contenitori e le poche pietanze che si avevano a disposizione si cucinavano sull’uscio della strada. Anche oggi o’ cuoppo è servito in strada, si può trovare nelle rosticcerie o nelle friggitorie, ma è presentato molto spesso anche in pizzeria come antipasto, servito a tavola con la sua tipica forma.

Nel cosiddetto “cuoppo di terra” si trovano crocchè di patate, arancini di riso, zeppoline di pasta cresciuta, verdure pastellate, come melanzane, zucchine, fiori di zucca ripieni di ricotta e passati poi nella pastella. Alcuni aggiungono pure le mini frittatine di pasta.

Il cuoppo può essere anche riempito con ingredienti a base di pesce: alici fritte, baccalà fritto, arricchiti con le zeppoline di mare, ossia pasta cresciuta con alghe, oppure con anelli di calamari e moscardini passati prima nella farina e poi in padella. “O’ Cuppetiello”, infatti, è un tipico cartoccio di pesce fritto composto da seppioline, scampi, calamari, gamberoni e canestrelli. Riscuote successo il cuoppo realizzato con frittura di paranza, una frittura di pesce di piccolo taglio, molto diffusa nella cucina napoletana. È di solito fatta con merluzzetti, triglie, sogliolette ma possono esservi anche altre varietà di pesce di piccolo taglio, come alici, mazzoni, retunni o vope.

La frittura, poi, va mangiata caldissima (“frijenno magnanno”, dicono a Napoli).

Olive ascolane

L’ascolana è un’oliva più piccola rispetto alla media, tenera, difficile, estremamente delicata nella coltivazione: cresce in terreni scoscesi, dei quali è meravigliosamente dotato il Piceno. Ha ottenuto la DOP nel 2005. Le ascolane sono “le olive da mensa” quelle destinate a essere mangiate, per lo più nella nota ricetta che le vuole ripiene e fritte.

Le olive ascolane fritte nascono nelle case delle famiglie più nobili, dove ci si poteva permettere di avanzare anche la carne. Proprio da questi avanzi, macinati, nascono i primi ripieni da mettere dentro le olive.

Le olive all’ascolana si mangiano anche in un solo boccone, ma la loro preparazione richiede un processo lungo e laborioso. Le olive vanno immerse nell’acqua per almeno dodici ore e poi snocciolate formando una spirale. Nel frattempo vanno rosolate le carni (il disciplinare dà percentuali minime e massime: 10% di pollo, 30% di maiale, 60% di manzo) insieme a carote, sedano e cipolla, come se fosse uno spezzatino, si aggiungono rosmarino, limone, vino bianco secco e sale. Una volta tolte dal fuoco vanno passate al tritacarne e aromatizzate con noce moscata. Quindi bisogna unire uova e parmigiano di qualità facendo in modo che l’impasto resti morbido. Con un pizzico di questo impasto si forma la pallina sulla quale si riavvolge la spirale di oliva.

Il composto viene poi passato nella farina e nell’uovo precedentemente sbattuto e nel pane grattugiato e fritto in abbondante olio extravergine di oliva o di semi di girasole, bollente ma non troppo, a fuoco medio e non alto.

Appena raggiungono quel colore dorato che le contraddistingue, le olive vengono sgocciolate su carta assorbente e servite. Il risultato sarà perfetto se l’impanatura sarà sottile senza staccarsi dall’oliva.

Gnocco fritto

Completiamo il breve giro d’Italia della frittura in Emilia Romagna per conoscere una preparazione tipica il cui nome varia da un paese all’altro: crescentina (Bologna), gnocco fritto (Modena e Reggio Emilia), torta fritta (Parma), chisola (Piacenza), pinzino (Ferrara).

Fino agli anni ‘60 lo gnocco fritto ha rappresentato uno dei cibi basilari della popolazione contadina della regione. La storia di questo prodotto semplice e goloso, fatto di acqua, farina e sale, si fa risalire alla cultura longobarda che disponeva di abbondante strutto, utilizzato sia nell’impasto che per la frittura. La cucina dei popoli del nord era carica di proteine e di grassi, con protagonista la selvaggina, come i cinghiali, e l’allevamento dei maiali. La loro cucina, calorica e grassa, era distante da quella a base di cereali, pecora e manzo degli Etruschi e dei Romani. Del maiale, già allora, non si buttava via niente: da qui, probabilmente, l’uso diffuso dello strutto, ingrediente fondamentale nella cucina locale. In particolare per la preparazione “del” gnocco fritto. E sì, perché da queste parti l’uso dell’articolo è diverso: gli emiliani dicono “il” gnocco fritto.

Il maiale ritorna poi negli abbinamenti. Lo gnocco fritto è perfetto per accompagnare i salumi e gli insaccati tipici di questa terra: dal prosciutto di Parma alla Mortadella di Bologna, al Salame Felino e via elencando. Lo gnocco fritto è ottimo anche con un formaggio tenero tipo lo stracchino o lo squacquerone, con le cipolline all’aceto balsamico e il pinzimonio di verdure. Non può mancare ovviamente un buon Lambrusco Doc, perfetto con la sua frizzante freschezza per ripulire questi gusti grassi.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club