Quando in un film di Hollywood si sente un brano di musica classica, allora – nove volte su dieci – in scena c’è il cattivo che sta compiendo un’azione malvagia. È un’associazione ormai scontata, quasi un cliché, una ovvietà: come si scrive qui, se c’è musica classica, allora questa è la musica del male.
Norman Bates, in Psycho II, suona la sonata Al Chiaro di Luna di Beethoven. Alex Forrest, in Attrazione Fatale, ascolta la Madama Butterfly mentre medita la sua vendetta. Perfino il cattivo Moriarty, il celebre avversario di Sherlock Holmes, ruba i gioielli della Corona di Londra sulle note della Gazza Ladra di Rossini. E nel Silenzio degli Innocenti, Hannibal Lecter massacra due guardiani con, in sottofondo, le Variazioni Golberg.
Finisce qui? Niente affatto. Nella scena del ghetto ebraico di Schindler’s List, le violenze dei nazisti sono accompagnate da un vorticoso brano di Bach, in Léon, di Luc Besson, il protagonista uccide alcune persone mentre discute, con una terza, se sia meglio Beethoven o Mozart in fatto di Ouverture.
Il senso di tutto questo è chiaro: la malvagità violenta è, nella visione di Hollywood, sempre associata a una personalità colta, sofisticata e immorale. Il tipo del genio pazzo/assassino. In questo binomio, il sangue in scena rende chiara la parte “pazzo/assassino”. La musica classica quella del “genio”.
Il percorso dell’accostamento tra classica e violenza risale agli anni ’60: è in questo periodo che l’arrivo del rock e del pop relega la musica classica (sinfonica, ma anche operistica) ad accessorio scenico. Non più usata in funzione narrativa, viene impiegata per contraddistinguere la classe sociale del personaggio cui è associata: il popolo segue il rock, la classica diventa la musica giusta per definire la categoria delle persone ricche ed elitarie.
Negli anni ’70 la sua funzione si allarga: oltre alla raffinatezza delle classi più elevate, passa a simboleggiarne anche i vizi: la smania di potere e di soldi, le follie, la spietatezza. Nelle mani di registi come Luc Besson e soprattutto di Stanley Kubrick, questo modello diventa imperante: non è più solo “la musica del potente”, ma diventa la colonna sonora della sua malvagità, una sorta di “passaporto di rispettabilità”, o “una maschera”. Il modello originale, come è intuibile, è proprio Arancia Meccanica.
Da qui proviene il cliché tra classica e sadismo, che arriva a contaminare perfino film di tutt’altra lega, come il Padrino, gli Intoccabili, gli ultimi della serie di James Bond e perfino Mission: Impossible. Se compare in scena un tizio azzimato che chiede “Le piace Bach?”, è quasi certo che seguirà una sanguinosa e improvvisa carneficina.
L’ultimo passo della storia è allora quello che, da un lato, conserva l’ambiguità insita nella figura del malvagio rispettabile (ma solo perché ascolta musica classica, divertimento di classi colte e ricche), ma dall’altro, la applica anche su personaggi diversi, cioè non per necessità ricchi. Nasce così il folle omicida colto, il pazzo geniale e assassino, l’Hannibal Lecter. E la musica classica, che ne suggerisce a un tempo l’ambiguità, la sofisticatezza e l’inaffidabilità, gli fa da contrappunto.