Non solo canne: ecco perché la canapa salverà il pianeta

Resistente, cresce senza fertilizzanti e pesticidi, la canapa è la più grande (e sottovalutata) risorsa vegetale esistente in natura. Produce biodiesel a emissione bassa e può essere usata per tanti settori: edile, tessile, alimentare, plastico, energetico e farmaceutico

Estremamente resistente, è una pianta che cresce senza dover usare fertilizzanti, pesticidi o erbicidi e bonificare il terreno. La sua crescita così fitta annulla lo sviluppo di specie infestanti. Ottima anche da coltivare su terreni ammalorati, essendo in grado di assorbire zinco e mercurio, sostanze inquinanti. Sottrae CO2 dall’atmosfera e ossigena il terreno. In fase di crescita cattura quattro volte la quantità di anidride carbonica immagazzinata mediamente dagli alberi. I suoi benefici si possono avere in tutti i settori: edile, tessile, alimentare, plastico, energetico, farmaceutico, cosmetico, cartaceo, automotive, aerospaziale, design, zootecnico e agricolo.

Di cosa stiamo parlando? Della cosiddetta “maiala delle piante” (proprio perché, dal “tiglio” al “canapolo”, non si butta via niente): la canapa. In poche parole la più grande (e sottovalutata) risorsa vegetale esistente in natura, un vero e proprio “campione di sostenibilità”, la cui applicazione pratica e massiva potrebbe portare a risultati eccezionali dal punto di vista della rigenerazione ambientale.

Non a caso, prima della illogica persecuzione in chiave anti-droga, dell’avvento di colture più economiche e dell’impiego di sostanze sintetiche, la canapa è stata coltivata fin dall’antichità, sia in Oriente che in Occidente. In Cina essa era usata fin dalla preistoria per fabbricare corde e tessuti, e più di duemila anni fa è servita per fabbricare il primo foglio di carta. Nel Mediterraneo già i Fenici usavano vele di canapa per le loro imbarcazioni. E nella Pianura Padana la canapa è stata coltivata per la fibra tessile fin dall’epoca romana.

In Italia la canapa era coltivata al Nord principalmente per la fibra tessile, ed in Campania per i semi. Negli Stati Uniti, la produzione di vernici con olio di canapa era molto sviluppata fino al 1937 quando, molto prima che in Italia, la legge ha proibito la coltivazione della canapa insieme con la marijuana. Ma in pochi sanno che George Washington, primo presidente americano, è stato un grande coltivatore di canapa industriale. Il proibizionismo era lontano anni luce e non aveva ancora fatto i suoi danni (tanto che, al di là dell’utilizzo pratico, non è da escludere che lo stesso generale ne facesse uso dal punto di vista ricreativo, ma questa è un’altra storia).

Se proviamo a mettere in fila i motivi per cui la canapa rappresenterebbe una vera rivoluzione verde, la lista sembra senza fine. Rende il 10% in più rispetto alla coltivazione del cotone, ha una consistenza simile al lino ma è più efficace nel bloccare i raggi UV, quindi è fresca da indossare quando fa caldo e, al tempo stesso, molto riparante nella stagione invernale. Nel campo delle costruzioni, le fibre di canapa vengono usate come stoppa per sigillare le tubature ma anche come componente base per costruire insieme alla calce.

Con la stoppa della canapa, si può fabbricare carta di alta qualità, sottile e resistente. Con le corte fibre cellulosiche del legno si può produrre la carta di uso più corrente, come la carta di giornale, i cartoni ecc. Fare la carta con la fibra e il legno della canapa comporta importanti vantaggi: innanzitutto per la sua enorme produttività in massa vegetale, e poi perché la si può ottenere da un’unica coltivazione insieme alla fibra tessile o ai semi. Un altro grosso vantaggio della canapa è costituito dalla bassa percentuale di lignina rispetto al legno degli alberi, che ne contengono circa il 20 % anziché il 40 %.

Nello scorso secolo, la chimica pesante ha soppiantato l’utilizzo della canapa, sull’onda di uno sviluppo economico senza controllo, che sta alla base della drammatica situazione ambientale che ci troviamo ad affrontare oggi

Come combustibile e carburante, il biodiesel che produce è a emissione molto bassa: biossido e zolfo stanno a zero, mentre l’ossido di carbonio prodotto è circa l’80% in meno rispetto al diesel normale. La canapa è poi una delle biomasse con la più alta velocità di crescita (120 giorni rispetto ai 25 anni richiesti dagli alberi da legname) e produce fino a 25 tonnellate di materia secca per ettaro all’anno, contro le 2 tonnellate di altri raccolti. Con una lavorazione adeguata dei semi si ottengono inoltre saponi e una varietà di detergenti, vernici e plastica biodegradabile. La canapa è anche un’ottima risorsa alimentare, molto proteica, ricca di vitamine, sali minerali e aminoacidi essenziali. Omettiamo, per una questione di spazio, i molteplici (e ormai certificati anche a livello legislativo) benefici dal punto di vista medico e terapeutico.

In sostanza, stiamo parlando di una risorsa totalmente naturale, che rispetta la biodiversità, utilizzabile in tutte le sue parti e in svariati settori, che potrebbe supplire quasi completamente l’uso di idrocarburi e prodotti di derivazione da petrolchimico, sia per l’energia che per i materiali. Uno strumento incredibilmente efficace per combattere la piaga principale del nostro tempo: l’inquinamento ambientale, causa madre del drammatico riscaldamento globale.

Quali sono, quindi, le difficoltà e le resistenze? In primo luogo interessi economici e politici. Nello scorso secolo, la chimica pesante ha soppiantato l’utilizzo della canapa, sull’onda di uno sviluppo economico senza controllo, che sta alla base della drammatica situazione ambientale che ci troviamo ad affrontare oggi. Inutile nascondere che uno dei motivi principali che ostacola la ripresa di una produzione industriale della canapa è proprio perché le industrie dovrebbero cambiare interamente i loro processi e il loro business.

Dal punto di vista politico, la situazione è in evoluzione. La Legge 242, approvata nel 2016, ha certamente modificato la prospettiva e indotto un cambiamento di rotta, che si è già materializzato con una crescita esponenziale dei terreni coltivati, molti dei quali fino a pochi anni fa dedicati ad altre colture ed ora riconvertiti. Siamo ancora lontani dalle cifre enormi della prima metà del Novecento, ma la strada sembra tracciata. Le legge, d’altronde, si poneva come obiettivo “il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione”.

Un passo tutt’altro che scontato per una nazione come l’Italia che, da secondo produttore di canapa, ne ha poi totalmente demolito la realtà agricola consolidata, vitale, confondendo due ambiti invece ben separati: l’illecito di quella canapa utilizzata nel traffico degli stupefacenti e il lecito che era parte del panorama agricolo italiano capace di trarne pieni frutti. Ancora oggi, il principale scoglio culturale è rappresentato da politici retrogradi che confondono i due campi, rifiutandosi di colmare “zone grigie” della normativa e frenando lo sviluppo di una filiera che sta già generando migliaia di posti di lavoro. Da questo punto vista consigliamo di volgere lo sguardo oltre Oceano, dove il Canada (ma anche gli Stati Uniti di Donald Trump) stanno già traducendo in fatti questi buoni propositi.

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