Il risiko africano è una partita eterna. E dopo Bouteflika in Algeria e Mugabe nello Zimbabwe, pochi giorni fa un altro leader storico del continente africano è stato deposto (precisamente: da un breve spot passato alla Tv, dove il ministro della Difesa Ahmed Awad annunciava la fine del regime). Al Bashir, oggi 75enne, lascia le redini del Sudan dopo trent’anni di potere, dopo quel colpo di Stato militare nel 1989 con il quale era diventato presidente.
Trent’anni di regime autoritario che hanno portato il paese verso l’adozione di una dottrina integralista dell’Islam, alla perdita degli introiti petroliferi con la secessione del Sud Sudan e verso la deriva jihadista (simpatia mai celata dal presidente Bashir). Uno dei paesi più grandi e poveri dell’Africa si trova, pertanto, a un bivio. Una nuova alba o un passaggio di consegne in stile Libia?
Al momento la guida nel paese è nella mani del Consiglio militare di transizione, il quale ha iniziato una specie di selezione dei possibili candidati alla presidenza, non approfondendo pero l‘eventuale posizione che acquisirebbe il Consiglio stesso nel futuro governo. Una contrattazione che vede coinvolti anche i civili, scesi in piazza assiduamente in questa settimana di fuoco, ma per molti dal finale scontato. Sembra infatti che l’ingerenza del Consiglio militare possa proseguire oltre la semplice organizzazione delle elezioni, e sopratutto influire sul processo di nomina.
Nuovi sconvolgimenti governativi, quindi, stanno infiammando il continente africano da nord a sud. Perché se Al Bashir è stato letteralmente arrestato e spodestato, in altri paesi la fase di ricambio della leadership è stata più pacifica. «José Eduardo Dos Santos, ha volontariamente lasciato il potere in Angola dopo trentotto anni, Jacob Zuma, al governo da ben meno tempo ma comunque estromesso in Sudafrica anche alla luce delle accuse di corruzione. E da un anno un nuovo leader in Etiopia – il giovane primo ministro Abiy Ahmed – sta rivoluzionando con una serie di aperture la politica interna e quella dell’intero Corno d’Africa», conferma Giovanni Carbone, professore ordinario di Scienza Politica all’Università degli studi di Milano e autore di importati ricerche su politica ed economia dei paesi dell’Africa subsahariana.
Per Carbone tuttavia è fuorviante parlare di Primavera Africana, in quanto dopo gli anni Novanta «chi governa in Africa lo fa arrivandoci attraverso le urne, con pochissime eccezioni». Anche se «resta il fatto che le elezioni sono spesso controllate da chi al potere ci è già. Ma gradualmente – continua il politologo – il continente sta facendo progressi».
Non immaginiamoci quindi un continente fatto di guerre e genti che le fuggono, perché, ferme restando una serie di situazioni in cui drammatiche violenze ci sono davvero, non corrisponde alla realtà dei fatti
Quello che è certo è che una frattura geografica sta scindendo il Paese. Anche se in Algeria quanto avvenuto è in parte legato alle cattive condizioni di salute del vecchio Bouteflika, il nord Africa resta coperto dall’ombra del dossier libico, mentre il resto del Paese cerca da anni di risalire la china ora economica, ora governativa. «Camerun e Uganda stanno facendo sufficientemente bene, in termini di crescita, il che facilita il restare in sella di presidenti che stanno anche loro invecchiando», spiega Carbone. Ma c’è sempre un però, un focolaio non sopito. «Museveni (presidente dell’Uganda ndr) resta un leader molto energetico, seppur in un paese con discrete tradizioni di presenza di opposizione politica. Biya in Camerun invece lo è decisamente meno, e affronta una congiuntura un po’ complessa per le ribellioni nell’area anglofona del paese».
Il nodo gordiano è uno: l’Africa non è quella che l’Occidente immagina e tantomeno “quella che cucinava l’esploratore in pentola” come ironizzava Elio e le Storie Tese nel testo di “Parco Sempione”. Nell’Africa subsahariana le prove generali di democrazia si sono tenute anni fa, il prossimo passo quindi, con le dovute eccezione di alcuni paesi, vuole essere verso un modello liberale. «Non immaginiamoci quindi un continente fatto di guerre e genti che le fuggono, perché, ferme restando una serie di situazioni in cui drammatiche violenze ci sono davvero, non corrisponde alla realtà dei fatti», suggerisce Carbone.
Resta comunque il fatto delle ondate migratorie scatenate dai colpi di stato e dalle guerre, in particolare al nord. Lo squilibrio del continente infatti fa perno su un gioco di specchi molto pericoloso, al quale i paesi in parte più equilibrati e virtuosi non vogliono assolutamente partecipare. La Libia è il riflesso di un Africa in cui nessuno vorrebbe ricadere: una proiezione del fallimento del seme democratico impiantato dall’Occidente, causa e conseguenza di quelli che l’epistemologo Taleb chiama Cigni Neri, ovvero eventi inaspettati e non voluti con effetti incalcolabili e, come in questo caso, di ineffabile violenza. Il rischio di fare la fine delle Libia è dietro l’angolo per molti paesi, in quanto, come ricorda il professor Carbone: «le guerre africane non sono scomparse, ma contrariamente alla percezione comune la tendenza complessiva è a una loro riduzione – in termini di paesi coinvolti, intensità e vittime – sebbene ci siano stati alcuni nuovi focolai dopo il 2010, come Boko Haram in Nigeria o il caso del Mali».
La fotografia è quella di un paese che marcia a due velocità, con la Libia a mordere il freno e paesi come il Sudan che tentano invece di voltare pagina
Protagonisti come il generale Khalifa Haftar, sono la sostanziale incarnazione di una scoria del continente africano, quella che ancora oggi, dopo il primo originale tentativo di democratizzazione con la Primavera Africana degli anni Novanta (prima ancora di quella Araba), vede come unico mezzo elettorale il colpo di stato. Incurante, non solo delle ondate di profughi dispersi come un’eco nell’Europa Centrale, bensì anche dei numerosi civili caduti per la brama di potere – secondo le stime dell’Associazione medici di origine straniera in Italia, il numero delle vittime è salito olte i 200, di cui quasi la metà minorenni, e più di 1000 feriti.
Insomma, la fotografia è quella di un paese che marcia a due velocità, con la Libia a mordere il freno e paesi come il Sudan che tentano invece di voltare pagina. È difficile, dunque, stabilire un titolo per questo nuovo capitolo della storia africana. Del resto – con metodi discutibili – presidenze ultra trentennali in Africa vivono e convivono (non sempre pacificamente) con le molteplicità culturali interne a ogni paese. Come del resto, il rovesciamento dei governi non è un’ipotesi da scartare a priori, anzi, dovremmo incominciare a farci i conti e magari, questa volta, tenersi a dovuta distanza.