Un ragazzo indiano lavora in un allevamento di mucche da latte lungo il Po, nelle pianure dell’Emilia. Studia all’università, esce con gli amici, fa la sua vita. Si innamora, pure. Ma a un certo punto sul lavoro si trova di fronte a un dilemma: una delle vacche, ormai vecchia, non produce più abbastanza latte e deve essere “rimpiazzata”. Che fare, considerando che il bovino è un animale sacro nella sua cultura? Non si tratta solo della trama di un film – in questo caso Il vegetariano di Roberto San Pietro, dal 28 marzo al cinema – ma anche (dilemmi bovini a parte) della quotidiana realtà di un grande numero di indiani che ormai da diversi decenni abitano l’Emilia (e più in generale tutte le zone intorno al fiume più lungo d’Italia).
Luogo di fortissima immigrazione sin dagli anni ‘80 e ‘90, soprattutto nella zona di Reggio Emilia gli immigrati si sono distinti per essere incredibili lavoratori. Al punto da essere stati, con il tempo, sempre più richiesti all’interno degli allevamenti, proprio perché «per loro la sacralità dell’animale fa sì che usino una particolare cura nel proprio lavoro», racconta il regista, grande appassionato della filosofia indiana e attento osservatore di questa realtà. Addirittura pare che, se non fosse per loro, la produzione locale di Parmigiano Reggiano subirebbe un duro colpo (secondo i dati di Coldiretti, sono 3.500 gli indiani operai che lavorano nelle 4000 stalle emiliane: già nel 2012 si trattava di un lavoratore su tre nella filiera del latte). Un amore vicendevole, quello tra loro e la pianura Padana, che tanto ricorda i paesaggi del Punjab, la regione a nord dell’India da cui molti di essi provengono. A spingerli ad emigrare, allora, erano state le lotte indipendentiste tra il Punjab e il governo indiano. Qui hanno trovato una nuova casa, simile per molti versi alla propria. Fiume compreso: per loro, il Po ormai ha acquisito una sacralità simile a quella del Gange (“i fiumi sono le vene del mondo“ narra infatti il protagonista del film). Può persino capitare di incontrarne qualcuno impegnato in qualche rito lungo le sponde del fiume, se si passa da quelle parti.
Una storia particolare e molto affascinante, quella degli indiani nel nostro paese. Se si tratti di un’integrazione da manuale, è difficile a dirsi. Quel che è certo, però, è che esiste almeno un esempio, in particolare nella zona di Novellara (cui il film si ispira), che può vantarsi d’essere «una best practice studiata anche all’estero»: un mix di contesti immigrativi di tutti i generi, non solo indiani, popolano infatti questo comune di 13mila abitanti in provincia di Reggio Emilia. Nella zona, questo popolo si distingue per l’organizzazione di grandi e colorate feste primaverili, così come per il grande tempio Sikh, che è uno dei principali in Europa. Ma piccoli templi induisti si trovano anche dentro a vecchi, insospettabili fienili. Qualcosa di inaspettato e molto affascinante al tempo stesso: «basta metterci un piede dentro e sembra di essere davvero in India», spiega ancora il regista.
San Pietro racconta di aver scoperto di questa curiosa tendenza migratoria una decina di anni fa e di averne seguito le dinamiche fino all’idea di realizzare il film. Una pellicola che, per un regista che alle spalle ha una lunga carriera di documentarista (il film è infatti piacevolmente informativo), non vuole essere «esotico, come di solito si intende, e ambientato solo in India, ma ben piantato in una realtà concreta come quella degli allevamenti da latte nella pianura Padana».
Il film affronta bene l’aspetto di scontro generazionale all’interno delle famiglie indiane: figli che si sentono italiani, ma che in famiglia parlano in punjabi, unico modo per comunicare con una mamma che l’italiano non l’ha mai imparato
Il film, comunque, gli ha richiesto tre viaggi in India tra sopralluoghi e riprese: «Il paese è molto cambiato dall’ultima volta che ci ero stato, solo cinque anni fa», spiega ancora San Pietro. Dalla cosiddetta “green revolution” che negli anni ‘60 importò nuovi metodi di coltivazione, fino ai giorni nostri, è cambiata l’India, è cambiato il modo di vivere, e con lei sono cambiate anche le generazioni. Comprese quelle degli indiani che vivono in Italia.
Il film affronta bene infatti l’aspetto di scontro generazionale all’interno delle famiglie indiane: figli che si sentono italiani, ma che in famiglia parlano in punjabi, unico modo per comunicare con una mamma che l’italiano non l’ha mai imparato. E che però vorrebbe (a questo proposito, lo stesso protagonista del film, Krishna, che in realtà porta il nome di Sukhpal Singh, è arrivato in Italia a 14 anni e, da attore non professionista arruolato per il film, parla italiano con un simpatico accento che muove tra l’inflessione indiana e la cadenza emiliana). Oppure le tradizioni religiose e quelle legate al matrimonio, dove i genitori tradizionalmente mostrano ai figli i potenziali pretendenti in foto, i quali – ça va sans dire – li rifiutano prontamente.
Ecco, le seconde generazioni di italiani-indiani «spesso accantonano gli aspetti più superati della propria cultura, per abbracciare stili di vita più occidentali», racconta il regista. Così il protagonista non è interessato a sposarsi ad un’indiana, pure aderendo al valore che il matrimonio riveste, tant’è che si innamora di una giovane russa, venuta per fare la badante in sostituzione della madre. Anche questa è una verità del nostro tempo, tanto quanto lo sono gli scontri generazionali, il lavoro negli allevamenti e l’integrazione.
I tempi cambiano, insomma, e in quanto tali ci suscitano delle domande. Il film porta anche a toccare più da vicino il problema degli allevamenti locali, molto diffusi in quelle zone dell’Emilia, e di come questi siano sempre più alle prese con un alto livello di competitività – il prezzo del latte, la performanza del bestiame – schiacciati come sono dalla produzione industriale. «I meccanismi della produzione alimentare hanno preso una direzione da cui è molto difficile tornare indietro, tutto in nome dell’abbassamento dei costi», dice San Pietro.
In un certo senso, meglio sarebbe vivere come loro: «ci sono villaggi ancora rurali dove c’è povertà, ma questa gente sopravvive e si accontenta di ricavare dall’animale quel che si può, mentre noi che abbiamo meno problemi economici sfruttiamo gli animali in maniera incredibile pur di abbassare i costi», specifica San Pietro. “È proprio quando hai i mezzi per farlo, che puoi decidere di rinunciare”, dice Krishna ad un amico in una scena del film, proprio mentre discutono del consumo di carne. I Sikh, infatti, sono vegetariani, e il rispetto per tutte le forme di vita è centrale, essendo legato al principio della reincarnazione.
Sia chiaro: non c’è bisogno di diventare Sikh per pensare agli aspetti della propria cultura di cui si può fare a meno. Il dialogo interculturale, in questo senso, può rappresentare un’occasione di riflessione importante: «io credo che sia significativo l’aver trovato un contesto di immigrazione dove il confronto non è violento e legato al degrado ma piuttosto è incentrato sulle idee e sugli scambi», dice il regista. Esempi come quello di Novellara non faranno notizia come altri casi più noti, forse, ma la storia de Il vegetariano è il racconto di un incontro autentico e reale. E come tale è parte di un futuro a cui guardare. «In fondo, ci può anche essere di aiuto per riflettere su un certo tipo di convinzioni, e magari per iniziare a prenderle di più in considerazione».