Frank Zappa era un genio assoluto. Un rocker capace di trovare quel punto di incontro, oggi evidente ai più, tra musica rock e musica classica. Non solo nella composizione in sé, quanto, più che altro, nell’attenzione alla complessità che la composizione può permettere. Discorso complesso che non affronterò in questa sede, ma chiunque abbia avuto il piacere, perché di piacere si tratta, di ascoltare le opere di Zappa ben sa di cosa parlo. Frank Zappa, signore e signori. Un iconoclasta, inoltre.
Uno di quelli che quando apre bocca dice cose ficcanti, non sempre vere, ma figuriamoci se è la verità quello che ci interessa sentir dire a un iconoclasta. A lui sono attribuite, anche per questo suo essere iconoclasta, alcune delle immagini più immaginifiche riguardo al rapporto complicato tra musica e critica musicale, attribuzione per altro posticcia e non sempre vera. Per dire, a lui si attribuisce la nota frase «Buona parte del giornalismo rock è gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare, per gente che non sa leggere», ma ci sono dubbi sulla veridicità della citazione. Mentre è senz’altro sua l’altrettanto nota «parlare di musica è come danzare di architettura». Entrambe, converrete, sono emerite puttanate, ma a un genio iconoclasta come Zappa le si possono ben perdonare. Perché un visionario ha ben diritto di dire cose che non rispondano necessariamente al vero, ma a una sua visione del mondo.
Ecco, Frank Zappa. Un genio del secolo scorso, ancora insuperato. Non solo un genio musicale, si badi bene, un genio. Punto. Ho saputo della sua morte, avvenuta nel volgere del 1993, da mio cognato Mauro, il marito di mia sorella. Pianista e tastierista di orientamento soul, un passato da turnista con artisti i cui nomi potrebbero, ingiustamente, non evocare molto nei lettori più giovani, da Stefano Rosso a Roberto Soffici, mio cognato mi diede la ferale notizia in maniera non troppo diretta, non tanto per tatto quanto perché evidentemente era convinto di quel che diceva. «Hai saputo che è morto quello che ti somiglia?».
All’epoca, ma giusto tra adepti, mi dicevano che somigliavo a Kim Tahyil dei Soundgarden. Due volte, a Bologna, dopo loro concerti, mi hanno fermato per chiedermi autografi e fare due chiacchiere
Ora, oggi capita spesso che mi si dica che somiglio a Stefano Bollani, forse a ragione. Abbiamo caratteristiche somatiche simili, dal nasone ai capelli ricci e neri, alla barba incolta. Ma all’epoca nessuno sapeva chi era Bollani. All’epoca, ma giusto tra adepti, mi dicevano che somigliavo a Kim Tahyil dei Soundgarden. Due volte, a Bologna, dopo loro concerti, mi hanno fermato per chiedermi autografi e fare due chiacchiere. Ma mio cognato non sapeva e non sa chi sia Kim Tahyil, mi ci gioco quel che vi pare. Di fronte alla mia perplessità, giustamente, mio cognato Mauro spiegò meglio. «Dai, è morto Frank Zappa, siete due gocce d’acqua». Mio cognato, per la cronaca, assomiglia, o almeno assomigliava, a Lionel Richie, quello di All night long e di Hello. C’è una foto del suo matrimonio con mia sorella, lì con un paio di baffi neri, in cui sembra proprio Lionel Richie, fatto che, essendo lui un grande appassionato di musica soul, credo gli faccia piacere sentirsi dire, a distanza di oltre trent’anni.
Ma non è di mio cognato Mauro che voglio parlarvi. Né, tantomeno, di Lionel Richie. Anche se di mio cognato in qualche modo sto parlando. Perché, appurato che mio cognato Mauro, ottimo pianista e tastierista, gran brava persona, non ha molto senso della fisiognomica, anzi, non ce l’ha evidentemente affatto, perché a parte nasone e capelli scuri, in effetti ai tempi portati con codini laterali alla Frank Zappa, non è che io sia esattamente il sosia del nostro, la notizia mi lasciò sconcertato, come spesso capita quando veniamo a sapere che muore qualcuno che non conosciamo di persona, ma la cui musica molto ha detto alla nostra vita.
Allora, nel momento in cui mio cognato mi disse della morte di Frank Zappa, eravamo prima di internet (o almeno prima di internet per tutti), le notizie si apprendevano spesso così, per passaparola. Uno sentiva la notizia al telegiornale, o la leggeva su un quotidiano, e la riferiva agli altri. Non c’era internet, e soprattutto non c’erano i social. C’erano però le riviste musicali, in edicola, e c’erano anche le librerie. Per cui, come spesso mi è capitato nella vita, ho approfittato di una brutta notizia per ampliare la mia cultura personale, per approfondire la mia conoscenza di Frank Zappa, non solo arricchendo la mia discografia, cosa che all’epoca avveniva prevalentemente grazie a Nannucci Dischi e Il Disco d’Oro di via Galliera a Bologna, città nella quale frequentavo Storia Moderna, ma anche grazie a tutto quello che trovavo di scritto.
Ecco, c’è una foto che spesso accompagnava gli articoli su Frank Zappa, oltre a quella già citata coi codini, foto che poi ho in qualche modo citato anche io, nella mia iconografia personale, ed è una foto piuttosto singolare, come in effetti non poteva che essere per una foto che vedeva ritratto Frank Zappa. C’è lui, Frank Zappa appunto, seduto sulla tazza del cesso. È a torso nudo, e trattandosi di un rocker ci può pure stare. Non che il fisico fosse il suo punto di forza, almeno non quello che palesa in questa foto (la sua nota canzone Tengo una minchia tanta, col titolo che tradisce le origini italiane, lascia intendere altro, buon per lui), e guarda in camera. La cosa che però più colpisce della foto, a parte un telefono appeso al muro del bagno, di quelli antichi, con la rotella coi numeri, prima che arrivassero i tasti, è il fatto che Frank Zappa, lì sul cesso, ha mutande e calzoni calati intorno alle caviglie, per altro esibendo un bel paio di scarpe nere con la punta, molto rockabilly. Come dire, Frank Zappa, sembrerebbe dall’immagine ritratta, è stato fotografato mentre sta cagando. A torso nudo e tutto, ma ineluttabilmente mentre sta cagando.
Tutta questa lunga premessa su Frank Zappa e la sua iconografia perché, si chiederà qualcuno? Niente, è uscito il nuovo singolo di Laura Pausini e Biagio Antonacci
La cosa, lo confesso, ogni volta mi fa tornare in mente una vecchia intervista vista su Rai 1, su Rai 1, capitemi, in cui Lucio Dalla era appunto seduto sul cesso, sempre con mutande e calzoni calati alle caviglie. Sul perché lo avessero intervistato in quel momento ho sempre avuto seri dubbi, ma tant’è, se l’intenzione era stupire, beh, almeno il me stesso bambino era rimasto stupito, ottimo risultato. Di Frank Zappa seduto sul cesso, sempre a torso nudo, sempre mutande, in realtà non visibili, e calzoni calati alle caviglie, esiste un’altra nota foto, con tanto di chitarra, intento a suonare. Ma in realtà si vede che è seduto sulla tavoletta chiusa, quindi lì si tratta di un posato atto proprio a provocare, perché nessuno si siede a culo nudo sulla tavoletta chiusa del cesso, non sarebbe un serio motivo per farlo, se non provocare. La foto di Frank Zappa che guarda in camera mentre sta cagando, non credo di dire una aberrazione, è una delle immagini rock più famose di sempre. Come Paul Simonon che spacca il basso nella copertina di London Calling, John e Yoko a letto a farsi intervistare nel Bed In, Jimi Hendrix che brucia la chitarra durante l’assolo, Chuck Berry che fa il passo dell’anatra, il duck walk.
Ora, tutta questa lunga premessa su Frank Zappa e la sua iconografia perché, si chiederà qualcuno? Niente, è uscito il nuovo singolo di Laura Pausini e Biagio Antonacci, In questa nostra casa nuova, giunto a distanza di pochi mesi da Il coraggio di andare, e come questo atto a pubblicizzare l’imminente tour congiunto negli stadi. Qualcosa, suppongo, che nella loro testa, soprattutto nella testa di Biagio che l’ha scritto, avrebbe dovuto essere la loro Lo stadio, brano per altro piuttosto agghiacciante di Tiziano Ferro, pensato evidentemente per essere cantato in coro, esattamente nel luogo che regala il titolo al brano.
Solo che, se Lo stadio di Tiziano Ferro è un brano agghiacciante, soprattutto se paragonato a indubbi capolavori come Sere nere, Non me lo so spiegare o Ero contentissimo, In questa nostra casa nuova è un brano agghiacciante e basta, perché il resto del repertorio dei nostri è altrettanto agghiacciante, brano rispetto al quale Lo stadio di Tiziano Ferro sembra il Requiem di Mozart. Nel caso di Biagio e Laura, in sostanza, succede quel miracolo per cui prendi un qualcosa di brutto, lo sommi a qualcosa di altrettanto brutto, forse anche peggio, e di colpo la bruttezza si eleva all’ennesima potenza, toccando soglie che sulla carta sembravano inimmaginabili.
Solo che, attenzione, il brutto che In questa nostra casa nuova tocca non è di quelli che ti fanno dire «ha fatto il giro completo e ora sembra bello», no, la canzone è di quelle che ti lasciano basito, come una volpe che nella notte attraversa la strada e si trova di fronte i fanali di una macchina sparata a massima velocità. Biagio e Laura sono la macchina, noi la volpe, non credo fosse necessario ribadirlo. O meglio, voi siete la volpe. Perché io sono quello che assomiglia a Frank Zappa, il nasone evidente, i baffi folti e neri, forse adesso un po’ ingrigiti, i capelli raccolti in due codini, e sto seduto sulla tazza del cesso, le mutande e i calzoni alle caviglie, intento a cagare: questa l’immagine che mi identifica alla perfezione mentre ascolto In questa nostra casa nuova.