Risiko nordafricanoIn Libia abbiamo perso ancora: e con Haftar vincono Egitto, Arabia e Francia

Avevamo scommesso sul governo di Tripoli e su Sarraj, ma l’abbiamo lasciato a bagnomaria, auspicando soluzioni politiche mentre Haftar ammassava un esercito per marciare su Tripoli. Ora che il generale sostenuto da Al Sisi sta prevalendo, il nostro ruolo nell’ex colonia rischia di finire per sempre

Hummingbird

L’aspetto paradossale di questa ennesima crisi libica sta nel coro che da ogni parte si leva a favore di una “soluzione politica”. L’hanno chiesta Italia, Usa, Francia ed Emirati Arabi Uniti in una dichiarazione congiunta. L’ha quasi implorata l’Onu, sia tramite Ghassan Salamè, inviato speciale per la Libia, sia tramite Antonio Guterres, il segretario generale che nelle scorse ore si trovava a Tripoli. L’hanno sollecitata la Russia, l’Unione Europea, il G7. Nessuno che spieghi, però, come si possa ottenere una “soluzione politica” quando sul terreno opera una forza militare ben organizzata e meglio armata che, non a caso, confida nella “soluzione militare”.

Stiamo parlando, ovviamente, dell’Esercito nazionale libico guidato da Khalifa Belqasim Haftar, ex generale di Gheddafi, ex insorto anti-Gheddafi e ora candidato autorevolissimo al ruolo di Gheddafi 2 la vendetta. Haftar, come le plurime identità dimostrano, non è affatto digiuno di politica. Ma si è garantito il dominio della Cirenaica, ha ottenuto il controllo del Fezzan e infine ha lanciato l’Opa definitiva su Tripoli e sull’intera Libia perché quando ha qualcosa da dire si fa precedere da un congruo numero di missili e veicoli blindati, che riescono quasi sempre a essere piuttosto convincenti.

In più, Haftar ha alleati potenti che fanno sul serio. L’Egitto dell’altro generale Al Sisi, che non lesina armi e aiuti di ogni genere. L’Arabia Saudita che gli garantisce l’appoggio di alcuni clan importanti della regione di Tripoli. Con lui anche qualche Paese di quelli che tengono i piedi in due scarpe e che in questi giorni, di fronte al colossale pernacchio che Haftar ha fatto alla comunità internazionale (la sua offensiva è partita con il segretario generale dell’Onu in visita a Tripoli, in pratica alla vigilia della conferenza di pace che avrebbe dovuto svolgersi in Libia su iniziativa delle stesse Nazioni Unite), prova forse qualche imbarazzo ma intanto comincia a valutare i futuri incassi. Gli Emirati che hanno fornito i denari e la Francia che ha messo armi, istruttori militari e intelligence a disposizione del nuovo Gheddafi.

Se tu, governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj che sei l’unico riconosciuto dalle istituzioni internazionali, proponi la famosa “soluzione politica” e quegli altri vogliono la “soluzione militare”, hai un solo modo per uscirne: o meni più forte (e poi, naturalmente, spieghi quant’è bella la soluzione politica) oppure ti fai guardare le spalle da qualcuno bello grosso. Al-Sarraj non ha avuto il randello per difendersi e difendere il proprio Governo e nessuno è corso davvero in suo soccorso.

La crisi forse terminale di Al-Sarraj è anche la crisi dell’ambizione italiana di avere un ruolo importante nella Libia di oggi e di domani. Perché il nostro Paese, nei secoli fedele, ha creduto nella road map di stabilizzazione tracciata dall’Onu e, a parole, apprezzata e approvata da tutti. Compresi quelli, come la Francia, che sottobanco hanno l’impossibile per farla fallire e lasciarci in braghe di tela con i flussi migratori, il petrolio e le questioni di sicurezza legate agli incroci tra, appunto, flussi, petrolio e terrorismo.

Secondo costume patrio finiremo ad autoflagellarci per le scelte sbagliate in politica estera. D’altra parte una buona metà del Paese criticò a suo tempo il Trattato di Bengasi per l’amicizia italo-libica, firmato da Berlusconi con Gheddafi, una mossa che, per poterla ripetere, oggi saremmo pronti a baciarci i gomiti.

Prima che parta la solita litania, sarà meglio chiarire tra noi pochi ma basilari concetti. A certo livelli, la politica estera (altrimenti detta: difesa dell’interesse nazionale nell’agone internazionale) non si può fare con le buone intenzioni. La Francia di Sarkozy, nel 2011, fece politica estera con una guerra che, di fatto, distrusse la Libia. Noi, invece di opporci, ci accodammo.

La crisi forse terminale di Al-Sarraj è anche la crisi dell’ambizione italiana di avere un ruolo importante nella Libia di oggi e di domani

Nel gennaio 2017 il Governo Gentiloni, per opera del ministro degli Interni Minniti, siglò il famoso accordo con Tripoli per la stabilizzazione del Paese, il contrasto al traffico di esseri umani e la cooperazione contro il terrorismo. Apriti cielo, quel patto è tuttora considerato una pagina buia nella storia del Paese, quando il vero schifo è aver fatto troppo poco per implementarlo, rafforzando per prima cosa il Governo di Al-Sarraj. In quell’accordo si ipotizzava anche di aiutare il governo di Tripoli a mettere sotto controllo il confine con il Niger che invece, in questi ultimi anni, è stato usato proprio da Haftar come un rubinetto per regolare a piacimento l’afflusso di migranti africani verso il Mediterraneo. Però quando si parlò, nel gennaio del 2018, di una missione militare italiana in Niger con un paio di centinaia di soldati, ci fu un’altra sollevazione di popolo, come se fossimo alla vigilia di una spedizione coloniale.

Insomma. Le missioni militari no. Gli accordi solo con i Governi belli pulitini. Se c’è un Governo che piace a noi e pure all’Onu, tipo Al-Sarraj, lasciamolo pure a bagno maria. Mettiamoci che non abbiamo sufficiente potenza economica su cui far leva e che i nostri alleati tradizionali, primi fra tutti gli Usa, ci usano e poco più, e non resta che chiedersi con che cosa vorremmo farla, questa benedetta politica estera. Distribuendo pizze?

Nel 2016, quando Giulio Regeni fu assassinato al Cairo dagli sgherri dei servizi di sicurezza, l’Italia aprì una crisi diplomatica con l’Egitto e richiamò l’ambasciatore. Tempo mezz’ora e al Cairo sbarcava il presidente francese Hollande, che firmò 30 accordi commerciali e concesse una serie di prestiti con cui Al Sisi fece incetta di armi francesi

Tornando alla Libia c’è una lezione che dovremmo meditare. Nel 2016, quando Giulio Regeni fu assassinato al Cairo dagli sgherri dei servizi di sicurezza, l’Italia aprì una crisi diplomatica con l’Egitto e richiamò l’ambasciatore. Tempo mezz’ora e al Cairo sbarcava il presidente francese Hollande, che firmò 30 accordi commerciali e concesse una serie di prestiti con cui Al Sisi fece incetta di armi francesi. Guarda caso oggi Francia ed Egitto sono alleati nel sostenere Haftar. Nel 2017, invece, quando l’Italia rimandò il proprio ambasciatore al Cairo, quasi tutti scrissero che era uno scandalo, una mossa sbagliata che non avremmo mai dovuto compiere. Nobile atteggiamento, pensando a Regeni. Ma pensando agli africani che Haftar spediva verso Nord per lucrare sul traffico e mettere in crisi Tripoli? Quanti ne saranno morti nella sabbia o in mare? E pensando a quanto potrebbe costare all’Italia intera perdere la preminenza sul mercato del greggio libico?

Certo, fa schifo ragionare così sapendo quali torture e sofferenze dovette affrontare Giulio Regeni. E ne chiediamo perdono alla famiglia. Ma la politica estera è questa roba qua, anche. Meglio saperlo. Tradotto negli eventi di queste ore vuol dire una cosa semplice. Se noi Italia, Usa, Onu, Ue, non siamo in grado o non vogliamo sostenere Al-Sarraj fino in fondo, concretamente, seriamente, meglio lasciar perdere. Togliamoci di mezzo e lasciamo fare a Haftar. Con un Gheddafi, in fondo, abbiamo già trattato. E almeno avremo evitato alla Libia un’altra inutile guerra.