Michele Serra diventerà leghista. Nel frattempo, leggetevi il Napoleone di Roberto Pazzi

Il protagonista de “Le cose bruciano” di Michele Serra è un uomo che decide di lasciare la politica per trasferirsi in campagna: ubriacatura bucolica. Il viaggio di Napoleone in “Verso Sant’Elena” di Pazzi ci artiglia e fa commuovere: è questo il romanzo da leggere

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Il bastone. Mi sorprende sempre che questi guru del giornalismo imbastarditi dalla vanità – o dall’età – pensino alla letteratura come a una medaglia ornamentale, un vaso di fiori nella metropoli assolata del proprio curriculum. Ma la mancanza di dedizione, di cura, nel recinto della parola, è imperdonabile. Sono certo – perché le frasi hanno un odore, un sapore, una tenuta animalesca – che Michele Serra badi di più alla rotondità dei suoi articoli, alla tensione ironica con cui lega l’amaca, che alla sapienza narrativa. Lo si sente, ad esempio, leggendo questo ultimo, Le cose che bruciano: la trama, intanto, è ustionata dal già visto & già detto. C’è un uomo di quasi cinquant’anni, Attilio, politico di pregio, che lascia la carriera per la campagna, molla il gregge parlamentare e si dà a quello reale. Come mai il tizio è passato dalle stelle della politica alle stalle montane? Il nostro elabora una proposta di legge che fa restare i commilitoni di stucco: “la reintroduzione dell’uniforme obbligatoria nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado”. L’idea gli viene “per rimediare a quella forma subdola di banalità che è l’anticonformismo”, di cui egli, per altro, soffre abbondantemente. Visto che i suoi lo guardano storto, Attilio, narcisista compiuto (“Dicono che avrei potuto diventare ministro… Dicono che della mia leva ero tra i più brillanti”) manda tutti a stendere e dai colli romani passa a quelli di Roccapane (luogo fittizio). L’ubriacatura bucolica di Serra è stucchevole: il suo eroe pare Biancaneve tra gli uccellini (“Faccio il verso del rigogolo. Scalzo, con le mani in tasca, sul prato davanti al bosco… ho imparato a imitarlo alla perfezione, tanto che il rigogolo, dal profondo del fogliame, a volte mi risponde”), si eccita annaffiando i prati (“Annaffiare è magnifico. Sei il vicario del cielo”), anche se non disdegna il culo “miracolosamente intatto, appena appesantito” della moglie che lo mantiene, abbiente cinquantenne. Le pillole morali di Serra, soprattutto, andreottiane, da pio democristiano, stagnano indigeste a mezzo stomaco:

  1. Elogio beota della vita all’aria aperta (“E dunque, all’aperto! Via dalle stanze chiuse dove si accumulano memorie e polvere”);
  2. Elogio cretino del dio cibo (“Non invidio chi considera il cibo una normale pratica di sopravvivenza. Gli è sfuggito qualcosa di fondamentale – e di molto gioioso, per giunta”);
  3. Elogio della vita comunque vada, ovunque sia, con rosario retorico al posto dell’eskimo (“essere vivi non è un diritto, è un prodigio”);
  4. Afrore nostalgico, l’afrodisiaco dei giornalisti in andropausa (“Poche cose riescono a testimoniare la fragilità della vita umana come le fotografie di famiglia”)

Al di là della trama, sfibrata, dalla morale asfittica, da claustrofobia esistenziale – a questo punto, è esteticamente più redditizio e gradevole e pungente un film affatto semplice come Viva la libertà di Roberto Andò – stupisce l’incauta ingenuità di un ‘navigato’ come Serra. Quando si scrive un romanzo, la dedizione è tutto, l’ho detto. Non dico di replicare Thomas Mann – necessario a una visione sontuosamente ‘politica’ – ma almeno studiare l’asse romanzesco di Ferdinando Camon o di Fulvio Tomizza, per dire, sarebbe utile. Lasciamo perdere. Repulsione verso le norme politiche, disprezzo verso i mestieranti in Parlamento, vita selvatica e agra, adesione ai piaceri primari – buon sesso e buon cibo –, ostilità verso il lusso: il nuovo romanzo di Michele Serra mi convince che può essere lui il pensatore di ferro della nuova destra. Diventerà leghista.

Michele Serra, Le cose bruciano, Feltrinelli 2019, pp.172, euro 15,00

Repulsione verso le norme politiche, disprezzo verso i mestieranti in Parlamento, vita selvatica e agra, adesione ai piaceri primari – buon sesso e buon cibo –, ostilità verso il lusso: il nuovo romanzo di Michele Serra mi convince che può essere lui il pensatore di ferro della nuova destra. Diventerà leghista.

La carota. Un romanzo, finalmente un romanzo! Ormai tocca urlarlo spalancando le finestre come le sottane dell’amata enigmatica. Un romanzo, un romanzo! Senza tiritere sociologiche, senza far filologia dell’ego, niente parabole politiche – ma che statura profondamente, proficuamente politica, qui! – né menate giornalistiche. A mio avviso Verso Sant’Elena avrebbe dovuto andare fino in fondo allo Strega, ma queste sono sciocchezze chic, che nulla aggiungono al robusto talento di Roberto Pazzi, tra i romanzieri italiani più concreti dell’ultimo trentennio – ricordo, a braccio, Cercando l’Imperatore, Vangelo di Giuda, La città volante, Conclave. Con concreto intendo uno che, artigianalmente, sa costruire una trama solida, entro una cornice stilistica accurata. Insomma, con raro talento non fa annoiare il lettore – e non è poco.

In Verso Sant’Elena, ad esempio, ci imbarca sulla ‘Northumberland’, siamo nell’ottobre del 1815, nella cabina di Napoleone, l’uomo che ha vissuto quindici secoli in quindici anni, ora al tramonto, sulla scia dell’esilio. Tra ricordi abbacinanti e delicatissimi ed evanescenze oniriche – appare, per balzi, l’Eugénie del suo romanzo giovanile, Clisson ed Eugénie – il fu Imperatore compie la propria catabasi nella verticale della nostalgia. Soprattutto, è lo stile di Pazzi, elegante, rapido, radioso, a convincere: il rischio di ‘pettinare’ Napoleone con un ‘mattone’ era dietro l’angolo. Lo scrittore risolve il dilemma studiando un libro ‘per sketch’, che dura neanche duecento vescovili pagine, dove intervengono i titani della Storia (sentite qui, Al Palazzo d’Inverno lo zar sogna: “Un parvenu che in pochi anni saliva tutta la scala sociale e si assideva su un antico trono, pari a sovrani dinastici, al potere invece da vari secoli. Disprezzo dichiarato e segreta attrazione, ecco che cosa poteva provare un ambizioso come lui!”) e le intimità del sovrano in disuso, detronizzato (“forse mio figlio mi assolverà per l’esempio lasciato di un uomo libero, che non si piega al destino”).

Ricco di eventi, privo di ricami retorici, il libro di Pazzi, comunque, ha momenti di pura commozione, architettati con estro, con autentico piglio narrativo, che ci artiglia (“Il mondo, che è così vasto, così vario, così imprevedibile, si restringe a puro desiderio, a dolce ferita dell’assenza, in una nave abbandonata, che dimentica la rotta, quasi alla deriva, fuori dalla Storia”). Inoltre, ritorno al punto, questo è un romanzo perfino ‘politico’, perché impone un pensiero sui ‘grandi uomini’ e il loro disastro, tra aspirazioni e realizzazioni, tra formalità e difformità. “Mi affascina tutto di Napoleone è difficile scegliere, anche i difetti, come l’arroganza, la presunzione, l’egoità che talvolta lo accecava… Ma erano inezie davanti ai pregi, la fulminea intuizione della manovra giusta sul campo militare, la rapidità dell’intelligenza, l’intuito che aveva sulle persone, l’ascendente straordinario che godeva sui soldati di cui condivideva ogni fatica, la semplicità dei gusti che rifiutava lo sfarzo, l’amore per la sua famiglia che pure lo tradì con l’eccezione di Paolina, lo sprezzo della morte, il coraggio, la fame di gloria, la spinta rivoluzionaria nel suo codice esteso. Goethe lo adorava, anche Hegel ne rimase impressionato. Manzoni alla Scala incontrò per caso lo sguardo magnetico di quegli occhi grigi, ‘i rai fulminei’. Mi fa soffrire il vuoto storico di oggi, dove ci sono solo delle metastasi della grandezza di Napoleone come Trump, Putin, Salvini, Orban, Erdogan”, mi ha detto Pazzi, un fascio di giorni fa. Ribadisco: un romanzo, finalmente un romanzo!

Roberto Pazzi, Verso Sant’Elena, Bompiani 2019, pp.190, euro 15,00