Bastone e carotaL’ultimo libro di Recalcati? Un pamphlet di abbagliante banalità. Leggete Franco Rella, se volete capire l’amore

Massimo Recalcati, ne “Mantieni il bacio”, dell'amore dice quello che vogliamo sentirci dire: ammanta di retorica concetti strafritti. “Immagini e testimonianze dall’esilio” di Rella, invece, racconta davvero un percorso filosofico ai limiti. Lì dove l’amore incontra la morte

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Il bastone. Il bacio è “Una discesa veloce di scale, di valico di montagna, di dirupo sul mare. Il cuore che precipita”. L’erotismo, “è come un vento di primavera una pioggia d’estate, una forza vitale anarchica”. Le citazioni civettuole – anzi, oscene perché mostrano l’immondo del pathos – non sono estratte dall’ultimo libro di Fabio Volo o di Francesco Sole, potrebbero far figura arlecchina, trasfigurate in versi, su Instagram. Sono tratte, piuttosto, dalle “Lezioni brevi sull’amore” di Massimo Recalcati, lo psicanalista sul sofà, Mantieni il bacio, così il titolo che le raduna, di fatto il canovaccio della recente trasmissione televisiva Rai, Lessico amoroso. Il libro, dedicato a Roberto Benigni, cita, nell’ordine: l’insegnante di pilates di Recalcati (si chiama Arianna, se v’importa), Jacques Lacan e Roland Barthes, per lo più, un po’ di Freud, un tot di Proust, Philip Roth (L’animale morente), Alberto Moravia e soprattutto lui, Recalcati medesimo. Tre volte in sei pagine – da p. 58 a p. 63 – spesso con la sgradevole didascalia “mi permetto su questo punto di rinviare a”, esercizio di narcisismo sul trapezio, esondazione di ego al cubo. Ma questi sono dettagli.

La sostanza è un pamphlet di abbagliante banalità, dove – e questo è grave, gravissimo – Recalcati ci dice dell’amore quello che vogliamo sentirci dire. Esempi sparsi. “Ogni amore vorrebbe non finire mai, durare infinitamente”; “Il desiderio sessuale non è mai del tutto piegato alla legge della riproduzione sessuale”; “Si può perdonare per amore ma si può anche, con la stessa dignità, non riuscire a perdonare per amore”. Recalcati pare un parroco di provincia, ha i vezzi del buon democristiano, non scontenta nessuno: annienta gli estremismi, fa il piacione, il compiacente, il paciere. L’ovvio è vulcanico quando Recalcati parla dell’amore coercitivo (“La violenza che vorrebbe ridurre l’Altro a un oggetto nelle nostre mani non ha nulla a che fare con l’amore”, ma davvero?, e chi osa dire il contrario…), dell’amore che finisce (“Quando finisce un amore non finisce mai, dunque solo un amore, ma finisce anche e soprattutto il mondo che i Due hanno generato”: consiglio l’ascolto di Quando finisce un amore, Riccardo Cocciante, 1974, è liricamente più proficuo), dei figli che crescono tra genitori in disarmo d’amore, in disamore e disaccordo (“Se il figlio diventa la sola ragione dell’unione di una coppia infelice, egli, anziché essere il simbolo di una nuova nascita del mondo, rischia di diventare una sorta di piccolo idolo al quale uno dei Due o entrambi decidono di sacrificare la propria felicità”: che è il concetto con cui si balocca chi giustifica le proprie voglie sull’altare dell’erede).

Altrimenti, lo psicanalista, abile a compilare una Ars amatoria del volemose bene, a titillare a dovere le tube di Falloppio delle lettrici -anta, ha la malizia di intorbidare le acque, di ammantare di retorica concetti strafritti. Così, quando scrive dell’“inconciliabilità tra l’amore e la natura feticistica del desiderio sessuale”, Recalcati intende dire semplicemente che la donna pensa all’amore quando il maschio vuole soltanto il suo culo ben tornito, una fa volare la mente l’altro ragiona col cazzo (vieta stupidaggine, peraltro). Ciò che sorprende, è, appunto, la brutale semplificazione di un fenomeno – l’amare, l’eros, l’acuto del desiderio – che non si può stabilire nei piani quinquennali della psicanalisi televisiva, ha natura polimorfica, invadente, rapace, improvvida. Tutto è sesso, tutto è sedurre – la parola, soprattutto – tutto ha corpo e nitore di carne. Tutto, perciò, è innocente e corrotto. Faccio l’amore con la donna che indubitabilmente amo, mentre immagino atroci cortocircuiti – la moglie di un amico in un cubo di vetro che si fa stordire da cinque, sei, seicento, compiacendo la rabbia di chi, da fuori, la ammira. D’altronde, sono complice di donne che mi raccontano fantasie turbinose, da radiare Philip Roth a dottore di castrati. L’amore è l’inesplicabile e il violento: pretende, per lo meno, verbi vietati, di vento e di voracità, per ripeterlo – che ci si scontri con il Cantico dei Cantici e con Cioran, con Maurice Blanchot e con Pierre Klossowski, con Norman O. Brown e con Georges Bataille, con Johuandeau e Canetti e Broch. Recalcati, cordiale, volitivo, capace, sta bene in tivù – al posto di Giletti, magari, imperatore del patetico. Riguardo all’amore, passiamo ad altro, di più vasto, di più crudele, di più azzurro e azzardato.

Massimo Recalcati, Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli 2019, pp.126, euro 14,00

Ciò che sorprende, è, appunto, la brutale semplificazione di un fenomeno – l’amare, l’eros, l’acuto del desiderio – che non si può stabilire nei piani quinquennali della psicanalisi televisiva, ha natura polimorfica, invadente, rapace, improvvida

La carota. Come i grandi libri anche questo è un errare, un pellegrinaggio tra altri libri. Il rapporto, però, non è di sudditanza ma di audacia: le parole vanno spaccate come atti di vetro, facendo dei frammenti una virtù di canto. Franco Rella ha una bibliografia raggiante, che racconta un percorso filosofico che non teme il notturno e lo strazio. Nell’ultimo libro, Immagini e testimonianze dall’esilio, costruito come un diario e un patto tra vagabondi, si parte dalla nudità – perciò, dall’indagine nella vergogna (“Essere nudi di fronte al mondo, di faccia all’altro: agli occhi che ti guardano, alle cose stesse che allungano tentacoli sinuosi e invisibili che sfiorano vischiosi la tua pelle, insinuandosi negli anfratti bui del tuo corpo, percorrendo sentieri sconosciuti, fino a sfiorare qualcosa di incognito dentro di te in una sensazione indefinita di ebbrezza, di disagio, di sofferenza, di abbandono, e forse di derelizione”). Si transita, pure, per l’Eros, solcando in modo purissimo Paul Valéry e Proust, senza celare le verità scoscese, sfidandoci al tormento e alla quota verticale (“In certi attimi d’amore ci si sente prossimi alla morte. L’uomo incontra in ogni istante l’indefinibile. Indefinibile come l’idea della morte. Dietro alla macchina, all’animale, alla sottrazione, all’opera d’arte sta questa terribile verità. L’atto d’amore che dovrebbe essere l’acuirsi della vita è l’atto che ci mette di faccia alla morte. La scrittura che dovrebbe dar forma all’informe si scontra esattamente con ciò che non può avere forma, con l’idea della morte”).

Rella, d’altronde, non vuole rabbonire né bonificare, abbaiando verità per i puri di cuori: è rabdomante, si impone nella crisi, aggrappa, fino a scorticarle, le parole di Melville e di Baudelaire, di Benjamin e di Kafka, di Hölderlin e di Kierkegaard, di Flaubert e di Rimbaud e di Conrad – di lapidaria bellezza le pagine su Apocalypse Now e Cuore di tenebra: “Ma chi è questo idolo? Chi è Kurtz? Fin dal nome sembrava che «tutta l’Europa avesse contribuito a formarlo». Kurtz è una voce… Una voce in cui si mescolano le parole del progresso e della civiltà, e insieme i «riti innominabili» della foresta” – e naturalmente di Rilke (frequentato da Rella anche in nobili traduzioni). Come se non ci restasse altro che accanirci lì, far rifugio in quelle parole, scavate come un covo senza notte, in questo tempo dove i simili si frequentano tra le catacombe di Babele. Un libro sul limite e sull’esilio, quello di Rella, che va percorso e abusato, uso alle estremità (“La via della scrittura rimane aperta. Si pone di fronte al dolore, alla souffrance, al nulla e procede. Tenta questo spazio, ne percorre i limiti, cerca il punto di soglia da cui possa captare una immagine o un suono e portarlo in sé come una conquista preziosa, come la testimonianza del superstite appunto, che da questo viaggio ritorna, riferisce, per poi riprendere il viaggio, senza curarsi se il sapere che ne trae, come ha scritto Baudelaire, è amaro”). D’altronde, “ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto”, scrive Ungaretti, giustificando la Vita d’un uomo, cioè la necessità della poesia come gesto di obiezione e di obbedienza, nuda, un dettato in pelle. Niente di meno dell’assoluto e della sua lacerazione vuole l’uomo.

Franco Rella, Immagini e testimonianze dell’esilio, Jaca Book 2019, pp.218, euro 20,00

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