Bianco e neroSalvini è il contrario di Andreotti (e per questo si somigliano tanto)

Uno silenzioso e arguto, l’altro rumoroso e terra terra. Il primo austero, il secondo sempre diverso. Entrambi di grande successo. Il parallelo tra lo storico leader dei democristiani e l’attuale ministro dell’Interno è estremo. Ma anche efficace, se lo si guarda in termini di opposizione

VITALY ARMAND / AFP e TIZIANA FABI / AFP

Il parallelo è spericolato: Giulio Andreotti e Matteo Salvini. Da un po’ di tempo salta fuori dalle cronache, che attribuiscono al capo della Lega una strategia politica condotta nei pressi della perfezione da Andreotti: “La politica dei due forni”. Per farla semplice semplice, funzionava così. La Democrazia Cristiana governava con il Partito Socialista, ma ne teneva a bada le ambizioni facendogli capire che, da un momento all’altro, poteva andare a comprare il pane da un altro fornaio, quello comunista. Così fa Salvini. Governa con il Movimento 5 Stelle, lasciando sempre aperta la porta del centrodestra, apertissima a livello locale. Andreottismo e ruspa salviniana, un incontro ravvicinato del terzo tipo.

A gennaio dell’anno scorso, Giulia Bongiorno spinse l’accostamento ancora più in là: “Questa Lega nazionale e concreta – disse la donna che di Andreotti è stata avvocato – l’avrebbe approvata”. Sarebbe da pazzi, però, considerare Salvini una prosecuzione di Andreotti con altri mezzi. Soprattutto perché, come scrive Massimo Franco nel suo libro, C’era una volta Andreotti, pubblicato a cento anni dalla sua nascita:È davvero un personaggio del passato”. In effetti, il parallelo offerto dalla cronaca, piuttosto che nella direzione della similitudine, deve essere percorso nella direzione opposta: quella della contrapposizione. Poiché Andreotti è una maschera del potere italiano. Salvini lo sta diventando. Paragonarli è come avvicinare il bianco al nero: il nero sembra più nero, il bianco più bianco, Salvini del tutto diverso da Andreotti.

Per esempio, il mistero. Andreotti parlava poco. Le sue frasi, così centellinate, sono degli aforismi: un concentrato di intelligenza e perfidia. Tipo questa: “Amo così tanto la Germania, che ne preferivo due”, pronunciata nei giorni della riunificazione tedesca. La parola di Andreotti, più che rivelare, nasconde. Cela chi la pronuncia. Lo lascia nell’ombra. “Dite sempre la verità”, consigliava, “ma non ditela mai tutta”. Lo spazio dell’incertezza è lo spazio del sovrano, che può decidere di fare una cosa, oppure di farne un’altra. Salvini abita questo spazio nel modo opposto. Cioè, parlando a qualsiasi ora del giorno. A volte, anche della notte. All’ora di cena, nessuno ricorda più cosa ha detto all’ora di pranzo. Tanto che può affermare: “Per ora, non ci sono gli elementi per dare la cittadinanza a Ramy”. E poi, senza aspettare che passi nemmeno un giorno, concede la cittadinanza al ragazzino, commentando entusiasta: “È come mio figlio”. Le sue frasi si moltiplicano a una tale velocità che, anziché chiarire le sue intenzioni, le rendono insondabili. Al posto del silenzio, Salvini usa il rumore. Il risultato è analogo: non è mai chiaro cos’abbia in mente.

Indro Montanelli ha scritto che De Gasperi e Andreotti andavano insieme in Chiesa, solo che il primo parlava con Dio, il secondo parlava con il prete. Salvini, invece, parla con i parrocchiani, giurando sul Vangelo, agitando il rosario, difendendo i crocefissi e i presepi, anche quando nessuno vuole fargli del male

Indro Montanelli ha scritto che De Gasperi e Andreotti andavano insieme in Chiesa, solo che il primo parlava con Dio, il secondo parlava con il prete. Salvini, invece, parla con i parrocchiani, giurando sul Vangelo, agitando il rosario, difendendo i crocefissi e i presepi, anche quando nessuno vuole fargli del male. Che si recasse allo stadio, a Palazzo Chigi, a passeggiare in centro, dal salumiere, dal confessore, dal barbiere, in un salotto romano o in curia, Andreotti si vestiva sempre nello stesso modo: completo blu/grigio scuro, camicia bianca, cravatta scelta in una gamma di colori ristretta. Salvini cambia abbigliamento a ogni appuntamento. È un camaleonte. L’abito di uno allude all’immutabilità. Quello dell’altro alla novità continua. Tra i due, c’è di mezzo la rivoluzione del neo-potere.

Per il film che ha dedicato a Andreotti, Paolo Sorrentino ha scelto come titolo: “Il Divo”. Era uno dei tanti soprannomi tra cui poteva pescare: Belzebù, Molok, Sfinge, Gobbo, il Papa Nero, Volpe. La parola divo viene dal latino divus. Porta nel campo della divinità. Che è in alto, lontana, inarrivabile, enigmatica, inafferrabile. Come Andreotti, appunto. Mentre Salvini è estraneo a tutto ciò: è vicino, a portata di mano, perfino indistinguibile da noi, sempre esposto al nostro sguardo. Ha la faccia incazzata di chi deve andare al lavoro il lunedì mattina. Un po’ scorbutico. Uno che va subito al sodo. È una questione di costume: cioè, di tutto l’essenziale. L’imperativo di Andreotti era essere alla guida: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, diceva. Per Salvini, al contrario, è fondamentale essere guidato: dall’umore della gente, dal sentimento dei più, dalla forza dello stormo di opinioni che migra verso una posizione, e poi verso un’altra, mentre lui, con l’abilità di un surfista, deve stare in testa all’onda. È questa la mutazione che ha trasformato il Principe: da Divo, è diventato Influencer. La sua statura si misura in base all’aderenza al flusso, al volume di approvazione di cui si nutre, dagli applausi che riceve. Si è stravolta la massima più celebre di Andreotti. Non è più il potere, è il consenso che logora chi non ce l’ha.