La distrazione sul posto di lavoro non è una novità dell’epoca digitale. Già nel Medioevo i monaci si lamentavano di non riuscire a concentrarsi a sufficienza sui testi che dovevano leggere e copiare. Dopo un po’ cominciavano a guardare altrove (ad esempio fuori dalla finestra), si mettevano a misurare il tempo che passava (con il Sole), non avevano Facebook, certo, ma avevano comunque la fantasia: e allora era un attimo perdersi in pensieri sul cibo e sul sesso, rallentando i ritmi della produzione e allungando l’elenco dei peccati da scontare con Dio.
Insomma, niente è cambiato: se il lavoro da fare non piace o è noioso, da sempre l’essere umano cerca di scansarlo, o messaggiando su Whatsapp oppure disegnando coniglietti assassini sui margini dei codici (vedi qui). Ma il lavoro va pur fatto. E anche i monaci di una volta avevano delle tecniche per ridurre le distrazioni e mettersi sotto il più possibile.
In generale, le fonti di distrazione principali erano già state eliminate. Niente sesso (era la regola) e pasti moderati. Nessuna famiglia cui badare, nessuna attività bellica: solo la normale attività del monastero, fatta di preghiere e attività manuali, considerate importanti perché permettevano di dare spazio alla mente.
Ma la distrazione, vera e propria arma del demonio, restava comunque viva. La mente trovava sempre qualcosa di più interessante cui appassionarsi, a discapito del lavoro e della preghiera. È così che venne trovato lo stratagemma: assecondare le pulsioni del corpo ma a fin di bene. Se allora come oggi il cervello è eccitato dai colori, dalle immagini violente e scabrose, dai pensieri più bassi, la cosa più furba era addomesticarli. Monaci e suore erano allora istruite a inventarsi immagini, storie, situazioni colorate e piene di riferimenti lascivi per memorizzare meglio le cose che leggevano e studiavano. Per imparare la sequenza dello zodiaco, per esempio, veniva suggerito di immaginare un ariete bianco, splendente, con corna d’oro, che prendeva a calci un toro rosso proprio nei testicoli. Il povero toro comincia a perdere sangue e, di fronte a lui, c’è una donna che dà alla luce due gemelli, un travaglio “così faticoso che sembra doverla dividere in due parti fino al petto”. E appena vengono fuori, cominciano a giocare con un orrendo granchio rosso, che li pizzica e li fa piangere.
Oppure, per imparare questioni e concetti più astratti, Ugo da San Vittore (XII secolo) suggeriva di costruire strutture mentali elaborate mentre si leggeva e si pensava. Una sorta di arca a più livelli che permetteva di sistemare gli elementi di un concetto in forma ordinata, suddividendo una questione complessa in tante più piccole e meno complesse. Per esempio, un albero indicava un testo, o un argomento (come ad esempio “la legge naturale”), che aveva otto rami e otto frutti su ogni ramo, cioè le 64 diverse idee e concetti da raggruppare.
Ma l’obiettivo, come si ricorda qui, non è di dipingere queste immagini fabbricate nella testa. È, bensì, di accontentare l’appetito per le forme estetiche, anche basse e triviali, mentre in realtà si lavora a qualcosa di più alto e glorioso.
Forse la stessa cosa si può fare anche oggi, evitando di perdere tempo sui social e impegnandosi nel portare a termine un lavoro importante ma noioso. Con l’aiuto di alberi del pensiero e di trucchi del Medioevo.