C’è una notizia, che ormai circola insistentemente nei corridoi del Nazareno. Non riguarda direttamente il nuovo segretario Nicola Zingaretti ma ne sta condizionando i primi passi alla guida dei dem. La notizia è che, di fatto, i renziani non esistono più. Esiste una piccola falange di affezionati inossidabili, disposti a sacrificarsi per l’ex capo anche quando non è lui a chiederlo, ancora intenti a interpretare ogni cosa che si muova all’interno del nuovo Pd in chiave pro-Renzi o anti-Renzi. È la falange giachettiana, soprattutto la coppia formata da Anna Ascani e Luciano Nobili, a muoversi in questa direzione. Tutto il resto di quel che era il corpaccione renziano si sta rapidamente evolvendo, con fluidità sorprendente.
Che Renzi avesse lasciato alla sua corrente un’eredità fatta di macerie era prevedibile, che i suoi peones riuscissero a far saltare praticamente tutto nel giro di poche settimane lo era meno. Al di là del drappello di delegati facenti capo all’area capitanata da Roberto Giachetti – e della relativa battaglia di testimonianza fatta a colpi di tweet e di astensioni in Direzione – tutti gli ex fedelissimi che al congresso hanno sostenuto la candidatura di Maurizio Martina sono alla disperata ricerca di una strada da seguire. Un percorso tutt’altro che semplice, complicato dal pessimo risultato – decisamente sotto le aspettative – che l’ex segretario pro-tempore ha ottenuto nei seggi del 3 marzo scorso. E che ha già lasciato dietro di sé strascichi pesanti.
Tutta quell’area, che conta una fitta schiera di deputati e senatori (numericamente, la maggioranza), è ora in balìa dello scontro furente esploso tra Maurizio Martina da una parte e la coppia Lotti-Guerini dall’altra. Il primo che accusa i secondi di non aver portato tutti i voti promessi, il secondi che imputano alla debolezza della candidatura dell’ex ministro la pesante sconfitta. Per non parlare delle esternazioni di Matteo Richetti, della diffidenza di Matteo Orfini e del distacco di Graziano Delrio. Le conseguenze di questa situazione sono sotto gli occhi di tutti. Ognuno si muove in autonomia, alla ricerca di una nuova posizione. C’è chi ha già corretto la rotta, spostando la prua verso lidi più sicuri, chi invece attende che lo scontro si consumi ed esprima un riferimento d’area più sicuro.
Zingaretti sta ritardando la formazione della segreteria unitaria perché non ha trovato un interlocutore per offrire il ruolo di vice segretario. Ma il governatore del Lazio non aspetterà in eterno, vuole chiudere prima delle elezioni europee
Quel che è certo è che questo stallo sta provocando dei grattacapi anche allo stesso Zingaretti. In primo luogo, la mancanza di un interlocutore sta ritardando la formazione della “segreteria unitaria” che il segretario aveva offerto alla minoranza. I nodi da sciogliere sono parecchi: accettare la proposta di Zingaretti di indicare un nome per il ruolo di vicesegretario, rinunciando così automaticamente al capogruppo alla Camera? E poi, eventualmente, il nome andrebbe individuato nel (piccolo) gruppo di parlamentari legati a Martina o nel (grande) gruppo degli orfani di Renzi? Tutte questioni che non possono prescindere dalla determinazione di una gerarchia precisa.
Il governatore del Lazio, però, non ha intenzione di aspettare in eterno. Vuole chiudere la partita della segreteria prima della presentazione delle liste per le europee, altro rebus che ha cominciato ad affrontare in autonomia. Quattro capilista su cinque sono stati (quasi) ufficialmente individuati. Si tratta di Giuliano Pisapia nel nord-ovest, Carlo Calenda nel nord-est, Simona Bonafè al centro e Caterina Chinnici nella circoscrizione isole. Resta vacante la casella del sud, dopo il no di Lucia Annunziata. In tutto questo, è singolare come una delle ex fedelissime renziane, l’europarlamentare Simona Bonafè sia stata scelta direttamente da Zingaretti, senza attendere un via libera dalla minoranza, a testimonianza del fatto che anche i capisaldi apparentemente più solidi si stanno lentamente sgretolando.
Il grosso problema, però, rimane quello della gestione dei gruppi parlamentari. Il Senato doveva essere una sorta di “ridotta renziana” e così è, almeno per ora, non fosse altro per la presenza dello stesso Renzi e degli uomini a lui più fedeli. Alla Camera ognuno si muove in ordine sparso. Il guaio è che su molti argomenti stanno emergendo delle differenze culturali e d’approccio politico profonde tra gli zingarettiani (vecchi e nuovi) e i turbo-riformisti. Sul reddito di cittadinanza, come noto, il giudizio negativo dell’ala sinistra del Pd è tutt’altro che definitivo e la battaglia per l’introduzione del salario minimo è una priorità. Approccio non condiviso da tutti, per usare un eufemismo. Senza una guida autorevole il caos potrebbe diventare ingovernabile. Segreteria, liste, gruppi parlamentari. Ecco il risultato dell’ultima (involontaria?) polpetta avvelenata lasciata da Renzi al suo successore: la dissoluzione del renzismo.