Il bastone. Il 31 marzo scorso è andata in scena una delle più brutte pagine di giornalismo culturale che il nuovo millennio ricordi. Su la Repubblica Alberto Asor Rosa, barone marxista della critica letteraria (quello della Letteratura italiana Einaudi e della Letteratura italiana del Novecento e di Scrittori e popolo, per capirci), recensisce L’ora del blu, il libro di poesie di Eugenio Scalfari, che di quel giornale è il fondatore. L’esercizio di colto leccaculaggio («Eugenio Scalfari ci ha adusi alle sorprese. La sorpresa questa volta è un libro di poesie») è francamente estremo, estremamente imbarazzante («L’Io… svolge un ruolo decisivo in quella che io mi azzarderei a definire la razionale fantasia di Eugenio Scalfari»: alla faccia dell’azzardo critico…), svolto con visibile vergogna (ma se leccata dev’essere, che sia suprema!). Chiamiamolo la danza dei brontosauri e non pensiamoci più. Resta, tuttavia, la svergognata raccolta di poesie (associata a Repubblica costa meno, tipico malcostume dei potentati), che Einaudi non osa pubblicare nella nobile (e sputtanata) collana ‘bianca’, dedita alla poesia, ma in un pietoso ‘Fuori collana’. Di norma, una poesia che inizia così, “La luna sbiadita/ e ancora senza stelle/ addensava intorno a sé/ i pensieri in disordine che svolazzavano”, non andrebbe pubblicata neanche nella più misera delle riviste on line. Visto che in Einaudi han fatto gli struzzi, insabbiando l’intelligenza critica, genuflessi al potente, senza avere il coraggio di rifiutare le poesie geriatriche di Scalfari, scrivo io per loro la letterina pia che avrebbero dovuto inviargli.
«Gentilissimo autore,
siamo certamente felici che abbia preferito la nostra casa editrice per sottoporre il suo manoscritto. L’ora del blu – titolo evocativo, va detto – dimostra una assidua frequentazione del poeta con il proprio narcisismo, aspetto, questo, interessante ma non fondamentale. Le poesie, spesso ombelicali, con un gusto nostalgico, fitto di reminiscenze che rimandano al Gozzano conosciuto al liceo («Mia lindissima Amapola/ eri quasi una bambina/ quando di te mi innamorai»), non vanno oltre al pensiero superficiale, all’immagine latente, da cui fioriscono ingenui cliché poetici da cui occorrerebbe liberarsi («Le isole migrabonde navigano/ e noi con esse/ coi nostri sogni leggeri»). Quando il poeta vuole librarsi su temi metafisici, poi, ad esempio impegnandosi a descrivere il “Creatore” come «un vento scarmigliato/ un futuro appannato/ un giglio senza stelo», oppure esistenziali (l’uomo descritto come «Una scimmia pensante/ che si vede vivere, crescere,/ invecchiare e morire»), l’effetto è stridente, diremmo pure presuntuoso, da pittore della domenica che si creda Cézanne, senza giungere a risultati lirici già toccati da Amalia Guglielminetti, Ada Negri, Fernanda Romagnoli, Nadia Campana, per non dire altri. I tentativi della ‘favola lirica’, chiamiamola così, ci riferiamo a La ribellione dei poveri, paiono meccanici («…loro arricchirono/ e i ricchi d’una volta impoverirono») e narrativamente irrilevanti (si consiglia, in questo caso, la profonda lettura di testi come La camera da letto di Attilio Bertolucci). Più che altro, ecco, si avverte assenza di studio e di cura letteraria («E l’Io svolazza/ senza più consistenza/ in balenanti intervalli», lo avverte anche lei, è lacca sul nulla, belato degno di oblio), l’ignoranza pressoché totale degli autori più importanti del canone poetico del Novecento italiano (consigliamo di aggiornarsi almeno leggendo l’opera di Mario Luzi, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli per orientarsi su diverse possibilità liriche) e della poesia più recente (si legga, almeno, Milo De Angelis, Giovanni Raboni, Pierluigi Cappello). Per queste ragioni, ci è impossibile accogliere la sua opera nei nostri progetti editoriali. Tuttavia, se intende produrre una pubblicazione privata, per parenti o amici, saremo felici di consigliarle il nostro stampatore di fiducia e un editor di riferimento che riesca a rifinire i suoi testi per la necessità. Cordiali e calorosi saluti, l’Editore».
Eugenio Scalfari, L’ora del blu, Einaudi 2019, pp.90, euro 14,00
Il titolo dell’antologia, “Muse del disincanto”, sta a dire che le Muse, un tempo incantante dai poeti, ora, disincantate, fanno il broncio, nessuno si cura più della fatidica ‘bellezza’, ma neppure della verità lirica
La carota. Di effervescente eleganza, stratosferica vitalità e clamorosa cultura, Silvio Raffo, anzi tutto poeta, romanziere – da La voce della pietra, riproposto da Elliot l’anno scorso, è stato tratto un film ‘hollywoodiano’ con Emilia Clarke, la diva di Game of Thrones – e traduttore – il suo lavoro si lega consustanzialmente a Emily Dickinson, di cui ha tradotto gran parte di Tutte le poesie del ‘Meridiano’ Mondadori –, s’è messo a costruire una poliedrica e gustosa e discutibile (per fortuna) antologia della «Poesia italiana del Novecento». Discutibile (per fortuna) lo è fin dal titolo e dalle intenzioni critiche. Il titolo dell’antologia, Muse del disincanto, sta a dire che le Muse, un tempo incantante dai poeti, ora, disincantate, fanno il broncio, nessuno si cura più della fatidica ‘bellezza’, ma neppure della verità lirica: «Lo spegnersi delle domande fondamentali… e insieme del canto e del senso estetico della forma non rischiano di condurre l’operare poetico a un arido esercizio di scrittura?», si domanda Raffo nella Postilla a guisa di congedo. Prima del congedo, però, c’è un indiscutibile pasto poetico in cui Raffo, con sguardo sopraffino – cioè: capacità di sintesi; per questo il libro, privo di vieti accademismi, dovrebbe andare in mano a liceali, curiosi, volenterosi del verbo – ribalta il canone e riabilita i cosiddetti ‘minori’ («In quest’antologia è dedicato uno spazio più o meno equivalente a poeti come Montale e Lucio Piccolo, come Ungaretti e Bigongiari o Quasimodo e Libero De Libero. Insomma, si è cercato di abbattere l’usuale e spesso ridicola barriera che separa i ‘maggiori’ dai ‘minori’, richiamando l’attenzione anche su questi ultimi»). Il surf lungo il Novecento, così, è davvero audace: si va dai soliti grandi (Caproni, Bertolucci, Luzi, Zanzotto etc.) agli assoluti ignoti, per noi lettori in malafede (chessò: Nella Nobili, Maria Luisa Belleli, Luca Ghiselli, Lina Fritschi, Luciana Guatelli…). Soprattutto, in questo lavoro pieno di sorprese e di lussi intellettuali, Raffo dà spazio a svariati maestri ingiustamente in ombra nel canone lirico spaparanzato sulle antologie scolastiche (finalmente Piero Bigongiari e Carlo Michelstaedter e Fernanda Romagnoli e Tommaso Landolfi e Rodolfo Quadrelli e Bartolo Cattafi e Antonio Delfini e Cristina Campo, trattati per i poeti che sono). Tra l’altro, Raffo non dimentica di celebrare, in un capitolo a parte, Musa e musica leggera, i rapporti tra lirica e canzone pop, tracciando una sommaria mappa che va dal “filone tradizionale del canto a gola spiegata” al “filone impegnato”, il “filone trasgressivo più o meno autenticamente anticonformista” e il “filone intellettuale se non filosofico-mistico”, cioè da Domenico Modugno a De Andrè, da Vasco a Battiato e Giuni Russo. Ci si diverte e si impara tanto. Facciamo un pacco postale e regaliamo l’antologia a Eugenio Scalfari, gli servirà.
Silvio Raffo, Muse del disincanto. Poesia italiana del Novecento. Un’antologia critica, Castelvecchi 2019, pp.600, euro 46,5