Si è infranta sabato a Torre Maura l’idea della destra e della sinistra di usare la periferia romana come trampolino delle rispettive rivincite dopo l’umiliazione subita due anni fa da parte del Movimento Cinque Stelle. Due manifestazioni, entrambe convocate a sostegno del quartiere. Due mezzi flop, perché il quartiere è rimasto a casa e in piazza sono arrivati, sì, molti cittadini ma quasi tutti non residenti, convocati gli uni dalla Cgil e gli altri da Casa Pound, più il solito numero di curiosi che si aggrega in queste situazioni (a Roma la previsione di un po’ di “movimento” sposta ancora un buon numero di persone).
In un lucido articolo sull’Huffington Post Lucia Annunziata si è chiesta il perché di questo distacco e poi ieri ne ha fatto il centro dell’intera puntata della sua trasmissione su Rai Tre. La risposta non è arrivata dritta, e tuttavia ogni parola dei romani di Torre Maura e persino i loro vestiti, il loro italiano, le loro biografie di studenti, lavoratori, casalinghe, hanno demolito lo stereotipo del borgataro romano esasperato, della periferia romana culla di alienazione, calderone di identità smarrite che generano rabbia e sottocultura. Insomma, Torre Maura, esattamente come Tor Marancia, Trullo, Pietralata, Val Melaina, Primavalle, Acilia, Rebibbia, non sono quel che pensano destra e sinistra, perse nelle analisi sociologiche da quattro soldi sulle nostre banlieue. Anzi, non sono nemmeno banlieue, perché ovunque esiste un genius loci, una personalità specifica dei luoghi e anche un orgoglio di esserci nati o di abitarci.
“So’ de Torre Maura e non so’ d’accordo”, dice il celebratissimo Simone avviando la discussione, giovedì scorso, con il dirigente di CasaPound Mauro Antonini. Sì, perché a Roma, la provenienza devi dichiararla. Significa qualcosa. E se nella capitale del Papa erano i rioni del centro a determinare specificità e a indicare radici – Trastevere, Ponte, Panico, Borgo – adesso sono le borgate a dire chi sei, e non è raro al loro ingresso trovare grandi scritte che vantano la supremazia del quartiere: “Rebibbia Regna”, “Labaro Regna”. La sinistra e la destra che le conoscono solo nelle rappresentazioni caricaturali della tv – la tendenza Del Debbio da una parte, il vecchio stile Santoro dall’altra – non hanno idea di questo mondo. Da vent’anni l’hanno rubricato sotto la parola “degrado”, che significa tutto e niente, mettendo insieme nello stesso calderone zone agli antipodi geografici, Palmarola e San Basilio, le panchine rotte, le erbacce sul marciapiede, i negozi che chiudono, le gang degli spaccio e ovviamente gli immigrati, i rom, i barboni e persino l’antropologia dei residenti, brava gente che però non sa parlare l’italiano, come ha osservato travolta dalle critiche la scrittrice Elena Stancanelli, o al contrario – in una rappresentazione altrettanto falsa – un manzoniano volgo disperso che alza la testa per combattere il barbaro invasor.
La caccia al voto in nome dell’indignazione è un meccanismo ormai evidente, scoperto, soprattutto nella Capitale dove da tre legislature si fanno e si disfano sindacature sull’onda di questo tipo di campagne
Poi si scopre, ascoltando questi romani di Torre Maura, che non sono né volgo né ignoranti, e che la parola degrado non la dicono proprio. Raccontano altre cose, molto specifiche, su un quartiere che amano e in cui vorrebbero vivere meglio. Avevano un ospedale, non ce l’hanno più. Avevano due linee d’autobus, gliene è rimasta una. Avevano la metro, chiude un giorno sì e un giorno no. Pagano le tasse come quelli del Fleming, ma hanno la metà dei servizi, forse anche meno. L’asfalto delle loro strade sembra bombardato. Alcune vie (come via Codirossoni, dove avrebbero dovuto essere ospitati i rom) non hanno illuminazione pubblica. Non è degrado – un termine generico e alibistico – ma inefficienza amministrativa protratta nel tempo. Cecità delle aziende che gestiscono i servizi. Incompetenza dei Municipi. Ignavia del Campidoglio. E probabilmente ognuna di queste scelte porta il nome di un funzionario, di una municipalizzata, di un appaltatore, ma non ne sappiamo nulla perché anche l’opposizione ha perso l’abitudine di interessarsi del chi e del perché –e quindi della soluzione dei problemi – giudicandolo un lavoro troppo faticoso.
Non è difficile capire come mai i romani di Torre Maura abbiano guardato con scetticismo le opposte piazze della sinistra e della destra. Ha stufato tutti questa politica che arriva come uno sciame di cavallette ovunque ci sia un fatto di cronaca che suscita emozione – oggi i rom, ieri la ragazza morta, la nave carica di migranti, il rapinato che spara al ladro, il ladro che spara al rapinato – e ogni volta attiva le sue iperboli per trasformare in scontro ideologico banali questioni di ordine pubblico o di gestione di servizi e norme. La caccia al voto in nome dell’indignazione è un meccanismo ormai evidente, scoperto, soprattutto nella Capitale dove da tre legislature si fanno e si disfano sindacature sull’onda di questo tipo di campagne. “Volete solo voti”, dice Simone nel suo duello verbale con Antonini, e i partiti dovrebbero ricordarsi questa frase perché di sicuro non riguarda solo le pattuglie di CasaPound. Riguarda tutti, compresi gli ultimi arrivati, quel M5S che è stato votato in massa nelle periferie romane due anni fa e prometteva di riportarle a lucido, coi risultati che sappiamo.