«Se scoppiasse una nuova crisi del debito, questa volta per colpa non della Grecia, ma dell’Italia, lei farebbe comperare titoli di stato italiani per impedire un collasso dell’euro?» Di fronte a questa domanda netta, diretta, candida, Jens Weidmann esita un attimo, poi risponde che oggi ci sono strumenti diversi come l’Omt (Outright Monetary Transactions), c’è il fondo salva stati. D’accordo, ma lei direbbe «whatever it takes?» A quel punto il presidente della Bundesbank tace e risponde con un sorriso. L’aneddoto è stato raccontato da Carlo Cottarelli durante un dibattito a Roma e il Candide in questo caso era lo stesso Mr. spending review, in occasione di un incontro a porte chiuse con il capo della banca centrale tedesca, cioè l’uomo che in tutti questi anni si è messo all’opposizione della gestione Draghi fino al punto da votare apertamente no quando il presidente della Bce s’è inoltrato “in terra incognita” che poi non è affatto una landa desolata perché ci pascola già la Federal Reserve americana.
È vero, lo statuto della Bce non parla di disoccupazione, stabilisce che il mandato è la stabilità dei prezzi punto e basta, anche se c’è un riferimento alla crescita sostenibile. Tuttavia, dal 2012 in poi il banchiere centrale europeo ha agito come prestatore di ultima istanza, comprando sul mercato secondario i titoli emessi da quei governi che hanno portato chi più chi meno i debiti pubblici al 100% del pil e oltre, violando una delle regole auree del Trattato di Maastricht. La crisi è stata pesante, la peggiore del dopoguerra, ma dieci anni dopo solo pochi paesi hanno imboccato seriamente il cammino verso la riduzione del debito pubblico. Tra questi c’è la Germania e ciò dà una forza e un’autorevolezza particolare alla Bundesbank la quale ha dalla sua anche la performance economica di un paese cresciuto più della media, che ha pareggiato il bilancio e ha raggiunto in pratica il pieno impiego della forza lavoro. Stabilità monetaria, politica fiscale sana e occupazione, il mandato della Bce più quello della Fed in un paese solo.
Se la Banca centrale europea fosse un’impresa privata, l’azionista di maggioranza, anche in seguito ai suoi risultati, potrebbe imporre il proprio consiglio di amministrazione. Ma, nonostante la sua conclamata indipendenza, la Bce è un organismo di natura anche politica. Quindi decidono i governi, sono loro che nominano i capi delle banche centrali nazionali (e oggi in Italia vediamo come e quanto la politica stia mettendo i bastoni tra le ruote della Banca d’Italia), sono loro che di fatto sceglieranno chi prenderà il posto di Draghi.
Nonostante la sua conclamata indipendenza, la Bce è un organismo di natura anche politica. Quindi decidono i governi
La guerra di successione è in corso da tempo, ma si farà più accesa in seguito ai risultati delle elezioni europee. Se i sondaggi della vigilia sono accurati, avremo un parlamento frastagliato, con una maggioranza debole composta probabilmente dai popolari e dai socialisti (entrambi in discesa) più i liberali di Alde e magari con un appoggio esterno dei verdi, in modo da creare un argine contro di sovranisti, incapaci di rovesciare gli equilibri politici, ma forti abbastanza per condizionarli. Il balletto dei nomi risponderà come al solito a un manuale Cencelli nel quale il peso dei partiti bilancerà quello degli stati, ma questa volta più ancora che nel 2011, la partita si gioca attorno ad alcune questioni di linea che, probabilmente, diventeranno determinanti nella scelta del presidente: i poteri della Bce in merito alla politica monetaria e al sistema bancario, la sua indipendenza (che tuttavia influenza la politica fiscale la quale resta in capo ai governi nazionali), la sua capacità di manovra. “Nessun mercato delle vacche, per favore”, ha scritto in un editoriale il Financial Times invitando a badare ai contenuti.
È inutile in questo momento dire chi tra i molti candidati è davvero in pole position e nessuno esclude che di qui a ottobre possa emergere un outsider. Forse può essere più interessante cercare di incrociare gli uomini, le politiche e le linee di condotta possibili, in base all’esperienza di questi anni. Weidmann è senza dubbio la personalità più forte. Ma la sua sorte è legata alla partita che la Merkel gioca in Europa. Lo stesso vale per la candidata tedesca Claudia Buch ancor più ortodossa del capo della Buba. Se il posto di Juncker andasse a Manfred Weber, lo Spitzenkandidat del Partito popolare (o magari chissà alla stessa Angela), allora non ci sarebbe storia. In ogni caso il potente presidente della Buba può esercitare la propria influenza diventando non solo l’ispiratore di un ritorno alle origini, ma un vero e proprio kingmaker.
Il candidato ideale da questo punto di vista è Klaas Knot governatore della banca olandese che potrebbe essere l’uomo del back to normal. Grande esperto dei rapporti tra politiche di bilancio e tassi d’interesse sui titoli pubblici, tema al quale ha dedicato la sua tesi di dottorato, nessuno può imbrogliarlo su spread e affini. Da lui c’è da attendersi una banca centrale meno interventista, che bada soprattutto a tenere sotto controllo la quantità di moneta, prudente nella gestione dei tassi d’interesse, che riduce il suo portafoglio ed è pronta a liberarsi dei titoli di stato anche se nei tempi e nei modi più convenienti. Prima di stampare moneta per sostenere i debiti dei singoli paesi ci penserebbe mille volte e alla fine, forse, non lo farebbe. Anche sulle banche la linea sarebbe molto netta: niente salvataggi con denari pubblici, selezione e concentrazione, bail-in rigorosamente applicato senza lasciar fuori, quindi, gli obbligazionisti di ogni ordine e grado. Sarebbe la bestia nera dell’Italia populista, rafforzato anche dal risultato elettorale olandese che vede in ritirata la destra di Gilder a favore dei socialisti e dei liberali del premier Mark Rutte del quale Knot gode la massima fiducia.
Weidmann è senza dubbio la personalità più forte. Ma la sua sorte è legata alla partita che la Merkel gioca in Europa
Su una linea non molto diversa si colloca la coppia finlandese. Erkii Liikanen e Olli Rehn vengono considerati ortodossi in termini di finanza pubblica e politica monetaria. Ma Liikanen è sempre stato vicino a Draghi, è un ex parlamentare e ministro socialdemocratico, già commissario europeo, e nella Bce ha presieduto il gruppo di esperti per la riforma bancaria. Non è un uomo rigido, anzi viene apprezzato per le sue doti da politico navigato. Anche Olli Rehn viene dalla politica. Parlamentare del partito di Centro, ministro, è diventato famoso, anche se non esattamente popolare, come commissario agli affari monetari nella commissione presieduta da José Barroso. Sono stati anni terribili, dal 2010 al 2014, segnati dalla doppia crisi, quella finanziaria internazionale e quella dei debiti sovrani. Non si può dire che abbia rivelato doti eccelse, soprattutto ha fatto soffrire parecchio di governi italiani, mostrando scarsa capacità di comunicare, mediare, gestire. Machiavelli avrebbe detto che non aveva né la forza del leone né l’astuzia della volpe. Ha fatto il falco dell’austerità ed è diventato il bersaglio di Paul Krugman.
Sulle sponde del Meno d’affaccia prepotente un terzetto francese robusto anche se per nulla compatto. Benoît Georges Cœuré, membro del comitato esecutivo della Bce, è in sintonia con Draghi e potrebbe interpretarne l’eredità senza tradirlo. Tecnocrate (ha insegnato al Polytechnique), ha preso il posto di Lorenzo Bini Smaghi nel 2011. Aperto sostenitore delle misure non convenzionali, con lui il quantitative easing potrebbe essere ripetuto se necessario, i titoli di stato resterebbero in pancia alla Bce che li negozierebbe come una normale banca d’investimento. Convinto che chi chiede l’aiuto della Bce debba seguire un chiaro programma di risanamento dei conti pubblici, è pronto a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione “all’interno del mandato”. Condivide inoltre la teoria di Draghi secondo il quale la Bce deve garantire la stabilità finanziaria non solo monetaria. In altre parole, la manovra sui tassi d’interesse deve tener conto dell’impatto complessivo, quello sulla borsa e non solo quello sui prestiti e sul mercato monetario in senso stretto.
Benoît Georges Cœuré, membro del comitato esecutivo della Bce, è in sintonia con Draghi e potrebbe interpretarne l’eredità
François Villeroy de Galhau, governatore della Banca di Francia, il favorito degli economisti intervistati da Bloomberg, è anche il candidato del presidente francese Emmanuel Macron. Potrebbe interpretare il desiderio francese di guidare una nuova tappa verso l’integrazione, spingendo per la nascita di un ministro delle finanze europeo al quale fare riferimento. Del resto, era stato lo stesso Draghi a proporlo e la sua idea di introdurre ovunque il fiscal compact doveva diventare la premessa di questa nuova tappa verso l’unificazione fiscale dopo quella monetaria. Villeroy, dunque, non metterebbe in discussione la linea attuale, semmai cercherebbe di consolidare la rivoluzione compiuta con un apparato istituzionale che possa sostenerla. Christine Lagarde, donna forte, indipendente, sicura di sé (si è lasciata andare anche a confessioni personali su quanto sia bello il sesso a sessant’anni e le tecniche nascoste per rafforzare i glutei anche se si passa la giornata seduti in estenuanti riunioni), porterebbe tutta l’esperienza di questi anni al Fmi. Sarebbe interventista, gran fautrice della troika, favorevole persino a ristrutturare i debiti previa approvazione di politiche di risanamento severe. Il Fmi parla di un taglio del 20% al debito italiano da scaricare su banche, investitori istituzionali, singoli risparmiatori italiani e stranieri, all’interno di un programma di aggiustamento radicale e di medio periodo. Da far venire i brividi.
E l’Italia? Ha ottenuto molto la scorsa legislatura e il mercato dei cavalli sulla piazza di Bruxelles non lascia questa volta spazi importanti
Contro il terzetto francese gioca il fatto che Parigi ha già avuto un presidente, Jean-Claude Trichet (lo stesso può dirsi per l’Olanda che ha avuto Wim Duisenberg il primo presidente, anche se solo per metà mandato), così spuntano diversi outsider. Ci sono i falchi Ewald Nowotny, governatore della Banca centrale dell’Austria e Ardo Hansson governatore di Eesti Pank (la banca dell’Estonia). Tra i moderati c’è Klaus Regling, figlio di un carpentiere diventato deputato socialdemocratico, è uomo di grande esperienza internazionale (in particolare al Fondo monetario). È tedesco, tuttavia potrebbe passare come soluzione interna perché è l’attuale direttore generale del fondo salva-Stati Esm. C’è poi un’altra colomba in pista: Philip Lane, governatore della Banca d’Irlanda, ma per lui c’è il posto nient’affatto secondario e ininfluente, di capo economista della Bce.
E l’Italia? Ha ottenuto molto la scorsa legislatura (Antonio Tajani presidente del parlamento, Federica Mogherini commissario agli esteri e soprattutto Draghi) e il mercato dei cavalli sulla piazza di Bruxelles non lascia questa volta spazi importanti. Quanto alla banca centrale, il candidato ideale per gli interessi italiani sarebbe Coeuré, tuttavia lo scontro – che, lo ripetiamo, è di linea politica non solo di persone e poltrone – deve ancora cominciare e l’Italia, oggi come oggi, è debole di uomini, ma ancor più di contenuti.