”Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”. Anche il sommo Tolstoj funziona per raccontare l’Europa che ha appena votato. Perché alla fin fine, la storia è questa: quelli contenti dell’Europa (e quelli che dicono siamo contenti ma vogliamo cambiarla, beh, vedremo se faranno qualcosa) troveranno comunque un accordo. Popolari, socialisti e democratici, liberali… Mentre quelli scontenti dell’Europa non lo troveranno mai, perché sono scontenti in mille modi diversi. Orban e Fidesz senza somigliare ai polacchi del Pis che mai vorrebbero avere a che fare con i lepenisti francesi, mentre gli inglesi pro Brexit fanno bye bye a tutti. Anche in Italia, M5S è euroscettico in modo e in misura assai diversa dalla Lega, e infatti resteranno in gruppi politici ben distinti.
Tutto questo per dire che, con i risultati elettorali ancora da certificare, già si vedono le prime conseguenze. Matteo Salvini, che non sarà De Gasperi ma è svelto come un gatto, le ha sparate grosse e nello stesso tempo è corso ai ripari. Cambiamo l’Europa, riscriviamo le regole, cambia tutto, dovranno ascoltarci, al diavolo le letterine, ha detto, ben sapendo che, per il principio delle infelicità non cumulabili, l’Europa non cambierà, le regole resteranno più o meno quelle e nessuno gli darà retta. Così si è affrettato a chiedere “una grande conferenza europea su lavoro, crescita, investimenti, sulla garanzia del debito e sul ruolo delle banche centrali e della Bce”, conscio che nessuna Commissione, uscente o entrante che sia, gli regalerà mai una simile opportunità per mettere sotto accusa l’intero sistema. Il suo obiettivo è farsi dire no e lucrare poi, a Roma come a Bruxelles, sulla vecchia idea della Ue matrigna.
Cinico e baro, il nostro Matteo. Come il destino evocato da Giuseppe Saragat dopo la sconfitta del 1953. Ma pur sempre il leader del singolo partito nazionale più rappresentato nel prossimo Parlamento europeo. Il che porta alla seconda domanda del dopo voto: resisterà l’Europa dei contenti alla tentazione di vendicarsi di Salvini sulla pelle dell’Italia? Di colpire il più rumoroso degli infelici, la Lega, per ammonire tutti gli altri, con noi di mezzo?
Il segnale l’ha dato il solito Emmanuel Macron. Ha incontrato e sta incontrando tutti. I leader del blocco di Vysegrad (l’ungherese Orban, il polacco Morawiecki, lo slovacco Pellegrini, la ceca Sarec), il premier socialista spagnolo Sanchez (quella del Psoe sarà la delegazione nazionale più numerosa del gruppo socialista, così come quella francese sarà la più folta del blocco liberale), l’inevitabile Merkel, gli emissari del premier portoghese Costa e di quello olandese Rutte. Insomma, chiunque tranne il primo ministro italiano Giuseppe Conte.
Resisterà l’Europa dei contenti alla tentazione di vendicarsi di Salvini sulla pelle dell’Italia? Di colpire il più rumoroso degli infelici, la Lega, per ammonire tutti gli altri, con noi di mezzo?
Per carità, Macron ha tirato un sospirone di sollievo, l’umiliazione di un sorpasso con distacco è stata evitata. E sa bene che il sistema politico francese, in nome dell’ortodossia repubblicana, non farebbe mai arrivare la Le Pen all’Eliseo, così come ha sempre bloccato il padre. Quindi ha ricominciato a fare il galletto. Ma è pensabile che l’Unione Europea decida gli assetti dei prossimi cinque anni escludendo dal tavolo l’Italia, ovvero la terza economia e la seconda manifattura del continente, uno dei quattro maggiori contributori al bilancio della Ue, in base al fatto che al governo c’è un politico come Salvini, che l’Europa vorrebbe cambiarla alle radici? Perché, diciamocela tutta, l’europeismo di Salvini è inesistente ma quello dei vari Orban e Morawiecki gli somiglia e pare motivato soprattutto dal fatto che Ungheria e Polonia dalla Ue cavano dei bei soldoni.
Macron ha i suoi progetti. Costruire un asse tra liberali e socialisti per trasformare i popolari in azionisti di minoranza della propssima Commissione, costringerli a rinunciare al loro candidato, il pallido Manfred Weber, e insediare il proprio, Michel Barnier, ex capo negoziatore della Brexit per conto della Ue. Il che servirebbe per ottenere poi dalla Commissione un allentamento dei cordoni della borsa e la possibilità di spendere che tanto servono alla Francia scossa dai gilet gialli, ai Paesi che ancora temono l’avanzata dei sovranisti (la Spagna, per dirne uno) e a quelli che da tempo patiscono la rigida coerenza tedesca sui parametri finanziari (Portogallo, Belgio e altri ancora). Margini che vengono invece negati all’Italia, afflitta dal solito eccesso di debito e con Salvini vogliosa di farne altro. Ai popolari, se vorranno essere della partita, viene chiesta un’altra prova di fedeltà: l’espulsione di Orban e del partito Fidesz.
Insomma, c’è aria di vendetta. E sarebbe un colossale errore. Un conto è isolare un governo sgradito e farlo penare, un altro azzoppare un’economia. Cosa che probabilmente avverrebbe nel momento in cui un Paese esportatore come il nostro dovesse affrontare condizioni di sfavore nella competizione continentale con Paesi “privilegiati”. Senza contare che, appoggiandosi a un’Europa che in questo scenario sarebbe davvero ostile, Salvini potrebbe ancora accrescere i propri consensi.
È dunque necessario, per il bene di tutti, che si arrivi a un negoziato vero, dove la retorica sappia cedere il passo al realismo. Salvini la smetta di sognare l’internazionale sovranista che non c’è e i pezzi grossi della Ue si rendano conto che senza l’Italia, o umiliando l’Italia mentre il Regno Unito se ne va, Trump mena come non mai e la Cina avanza, ci sarebbe troppa Europa in meno. A chi conviene?