Il bastone. A un giornalista non si chiede di essere Nostradamus né di avere talento per il romanzo distopico. Basta che ci racconti l’oggi, con candore di sguardo – cioè, innocente cinismo – e arguzia di stile – cioè, bella scrittura. Federico Rampini – lasciamo perdere lo stile, da ghiro tra i ghepardi, odiosamente sciatto, si leggesse, chessò, i saggi di Tom Wolfe e i reportage di Truman Capote, insomma, l’abbiccì– è l’emblema del narciso brontosauro di sinistra, olimpionico del cerchiobottismo, atletico nel rigirare la frittata in faccia ai suoi. Il carisma giornalistico di Rampini si svela a pagina 112. Per narrarci lo stralunato strapotere di Internet, il giornalista, rampicante sul palazzo di vetro del proprio ego, racconta di quella volta che, “mentre correvo la maratona di New York”, s’è accorto della rivoluzione copernicana in atto: “di tante edizioni a cui ho partecipato, era la prima così infestata da corridori che si facevano ‘selfie’ in continuazione”. Un capoverso dopo, nella stessa pagina, si cita – “nel mio ultimo libro…”, io non lo cito per comune senso del pudore. Rampini, così, ci dà due messaggi in una pagina:
- io sono un figo, corro la maratona di New York e scrivo libri per editori importanti, mica come voi, straccioni;
- io non racconto ‘i fatti’, ma i fatti miei, cosa m’importa dei fatti altrui? La notte della sinistra, in effetti, è un libro comico e interessante perché per in 164 pagine Rampini imputa agli altri le proprie colpe – essere politicamente corretto – e si esercita nel fare l’esegeta dell’aria fritta, è il Marco Polo dell’acqua calda, dice cose risapute da anni, da decenni.
Esempi. La sinistra sbaglia a difendere gli immigrati a oltranza lasciando ‘il tema’ dell’immigrazione alla destra, d’altronde i nostri connazionali hanno le pezze alle chiappe, “la povertà degli italiani esiste, ed è perfino peggiorata negli ultimi anni”; i cinesi hanno occupato l’Africa (“in molti paesi africani, il rapporto tra gli investimenti cinesi e quelli occidentali è dieci a uno”); “si parla ormai a vanvera di fascismo”; Donald Trump non è il demonio ma la risposta alle brute esigenze di una fascia di americani delusi, impoveriti, arrabbiati (che Rampini si guarda bene, dall’alto del suo trono giornalistico, di capire e studiare, li sfotte, piuttosto: “Trump ha conquistato i ‘redneck’, termine in origine spregiativo per indicare i bianchi poveri… sono quelli che adorano il wrestling e le corse di auto del campionato Nascar, i due sport più cafoni in assoluto”); il politicamente corretto ha invaso Hollywood e le attrici di terza fila ora si mettono a fare le opinioniste, hanno sostituito gli intellettuali, i veri maestri, “Da Pier Paolo Pasolini ad Asia Argento, è questa la traiettoria che ci descrive?” (alle zaffate di afrore snob di Rampini si deve rispondere così: Da Guido Piovene, Curzio Malaparte, Dino Buzzati, Giovanni Arpino, Ennio Flaiano a Federico Rampini, è questa la traiettoria che ci descrive?). Insomma, è tutto uno scintillio di frasi fatte, utili a scartavetrare il concetto stesso di politically correct. Il resto è Rampini che va in tivù (“Ho un ricordo preciso e personale di una mia partecipazione qualche anno fa a ‘Otto e mezzo’, il talk show di Lilli Gruber su La7. Matteo Renzi era l’altro ospite”), che griffa l’introduzione del suo libro da New York, che ci ricorda che “il mio primo incarico da corrispondente estero”, nel 1986, dopo un cursus honorum da bravo soldatino nel PCI, è stato “a Parigi, per ‘Il Sole 24 Ore’”, che ci relaziona sul suo attuale domicilio (“Essendomi trasferito a vivere a San Francisco al passaggio del millennio…”), sul lavoro da insegnante della moglie, in California, e della figlia, si chiama Costanza, “insegna scienze ambientali all’Università San Jose nella Silicon Valley” – e chissenefrega non sei mica Alessandro Magno e neanche Marlon Brando – e che continua ad autocitarsi, fino all’ultimo fiato, che palle (“Sentivo questo dramma, otto anni fa, quando scrissi Alla mia sinistra”: e, ripeto, chissenefrega, non sei mica Philip Roth che ricorda quando ha scritto Lamento di Portnoy). Quanto agli effluvi, alle grandinate del politicamente corretto, Rampini arriva con decenni di ritardo: Harold Bloom, sommo tra i critici letterari, sentì l’esigenza di ribadire il Canone occidentale nel 1994, quando l’accademia cominciava ad accusare Shakespeare di antisemitismo, Dostoevskij di fondamentalismo religioso, Dante di islamofobia per aver conficcato Maometto agli inferi. Ora come ora, il problema, semmai, è l’esasperazione degli estremismi, il ritorno, bieco e sbilenco, alle ideologie, i reflui di una rabbia mal sopita dal benessere presunto, una bisciante lascivia borghese, le vacue chiacchiere degli intellettualoidi marziani alla realtà. Rampini, in vena, forse, di rampicata parlamentare, ci tiene a seminare consigli sui ruderi residui della sinistra. Eccoli. “Ci vuole uno Stato forte, un’amministrazione pubblica al tempo stesso professionale e imparziale, severa e stimata, efficiente e competente”; “Smettiamola di usare quotidianamente il linguaggio della scomunica, di alzare grida d’allarme come se la democrazia italiana fosse minacciata ogni giorno dalle prevaricazioni e dall’autoritarismo ‘degli altri'”; “smetterla di regalare il valore-Nazione ai sovranisti”; evitare “l’indulgenza verso l’abusivismo popolare, la piccola evasione fiscale, l’assenteismo dei dipendenti statali, i falsi invalidi che rubano la pensione”. Insomma, il luna park dell’ovvio e del già detto, un granaio nel vento, la fiera delle vanità. A chi serve il libro di Rampini? Non certo alla sinistra. A lui, poi, cosa importa della sinistra, dell’Italia, dei fatti nostri, tanto dimora nella dorata California.
Federico Rampini,La notte della sinistra, Mondadori 2019, pp.168, euro 16,00
Abbiamo bisogno di uomini capaci di percuotere il millennio, di gettare la lama del verbo nella carne dei giorni, dissezionando, lacerando idee. Abbiamo bisogno di maestri decisi e indecenti, che non amino il decoro e l’urlo telecomandato, diseducati, geniali. Uno l’abbiamo. Ferdinando Camon.
La carota. Sostanzialmente. Di gente come Federico Rampini – auguro a lui di perpetuare la carriera giornalistica intrisa nel platino che già percorre – ce ne facciamo niente. Abbiamo bisogno di uomini capaci di percuotere il millennio, di gettare la lama del verbo nella carne dei giorni, dissezionando, lacerando idee. Abbiamo bisogno di maestri decisi e indecenti, che non amino il decoro e l’urlo telecomandato, diseducati, geniali. Uno l’abbiamo. Ferdinando Camon. Camon è uno che rompe le scatole, cioè adempie al ruolo primario della scrittura. S’immerge nella rogna fino a farla esplodere. Camon, anzi tutto, è uno scrittore di genio. Un altare per la madre, libro fine e feroce, lirico e possente, finalmente europeo – Raymond Carver lo elogiò scrivendo di “un’opera d’arte sublime” – andrebbe fatto leggere ai troppi aspiranti scrittori, giusto per impratichirsi con il mestiere. Poi ci sono gli altri. Il quinto stato – che fu introdotto, nel 1970, da Pier Paolo Pasolini e fatto tradurre in Francia su ispirazione di Sartre – e poi La malattia chiamata uomo e poi La vita eterna e poi Il Super-Baby. Quest’anno l’occasione per leggere Camon è triplice: potete affrontare il sagace polemista (Scrivere è più di vivere: ne parlano tutti i giornali dacché Camon si scaglia, tra l’altro, contro la baronia, i baronetti, i ducati dell’accademia italiana, “La mafia accademica è la gestione di un pezzo di Stato, l’università, come proprietà privata”), il letterato crudo e profondo (ne Il mestiere di scrittore sono raccolte le “Conversazioni critiche” con Moravia, Pasolini, Calvino, Volponi et alii; al libro, originariamente del 1973, fa il paio Il mestiere di poeta, del 1982, con interviste, tra gli altri, a Montale, Ungaretti, Caproni, Luzi, Zanzotto, Sereni; formidabile indagatore delle vite e delle opere altrui, a Camon è legata la bella Conversazione con Primo Levi), l’animale politico (il Tentativo di dialogo sul comunismo con Pietro Ingrao). Camon, comunque, va letto in ogni angolo, anche al contrario, perfino negli effluvi polemici su Facebook, soprattutto nel suo sito specifico, www.ferdinandocamon.it, piluccando qua e là, anche le briciole sono una manna, spina che cura, olio per le infermità. Ad esempio, ricalco un brano sull’Etica dello scrivere. “Ci sono molti lavori per i quali un’etica va imposta o conquistata: un rapporto morale con quello che si fa, per farlo con sincerità, con adesione, con verità. Ma c’è un lavoro che ha l’etica dentro di sé, e se non ce l’ha fallisce, non comincia neppure, crolla ad ogni passo. Questo lavoro è quello dello scrivere. Scrivere non è parlare. Parlare vuol dire reagire con le parole a un fatto che accade, mentre accade. Lo scrivere richiede tempo. Il parlare reagisce subito, per provocare nell’ascoltatore una reazione immediata, e di breve vitalità. La scrittura reagisce dopo, a passioni fredde, perché vuol restare a lungo, possibilmente (è il segreto desiderio di ogni scrittore) ‘per sempre’… La responsabilità può essere così alta, e lo sforzo etico di reggere l’impegno così logorante, che la scrittura genera la nevrosi, scrittura e nevrosi diventano la stessa cosa”. Spesso Camon ti spiazza con un aforisma che pare un passo di tango tra due che vogliono accoltellarsi. Qui parla della morte di Pasolini, ad esempio: “Su Pasolini, Moravia ha ripetuto un concetto che gli era caro: «All’epoca dei Greci avremmo affermato che l’ha ucciso il Fato, nel Medioevo cristiano che l’ha ucciso il Male: oggi concludiamo che l’ha ucciso il Nulla». Ho cercato di fargli riconoscere che è più facile uccidere quando l’assassino è il Nulla invece che il Male, e che dunque a uccidere Pasolini siamo stati noi, artefici del Nulla: noi, i Moravia”. L’ultima volta, l’ho intervistato nel 2013. Mi disse che il libro che ogni ragazzo dovrebbe leggere è “La città di Dio di Sant’Agostino perché è il libro più conturbante e profondo che l’umanità abbia mai scritto. Si domanda il senso dell’arte e della cultura mentre i barbari distruggono Roma”. Ribadì che si rifiutava di leggere manoscritti di scrittori in pectore, in vitro, scrisse che i miei versi erano “inventivi, personali, irti – sarà difficile pubblicarli”, anche se erano già pubblici. Non lo intervistai più, è già una grazia leggerlo.
Ferdinando Camon, Scrivere è più di vivere, Guanda 2019, pp.208, euro 17,00
Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, Edizioni di Storia e Letteratura 2019, pp.190, euro 18,00
Ferdinando Camon e Pietro Ingrao,Tentativo di dialogo sul comunismo, Ediesse 2019, pp.164, euro 15,00