Per anni, intellettuali e critici hanno snobbato “Game of Thrones” (“Il Trono di Spade” in Italia, un mezzo abominio linguistico su cui torneremo) salvo poi dover cambiare opinione quando la serie è diventata uno dei fenomeni culturali più rilevanti del decennio, e quindi ignorarla voleva dire perdersi le tonnellate di click che portava in dote. Per questo, con l’uscita dell’ultima stagione, sono fiorite recensioni e analisi sbilenche che, ignorando lo spirito originale della serie, ci hanno spiegato come la stagione finale sia stata una delusione, gli sceneggiatori degli incompetenti, le scelte prese assurde e via dicendo.
Parte di questo atteggiamento è legato al fraintendimento circa il tema di fondo della serie, erroneamente considerata “un fantasy”. Il titolo di una serie, infatti, non è un dettaglio ma serve a riassumere il tema principale, l’idea all’insegna della quale ogni puntata, ogni personaggio, perfino ogni dialogo ruota attorno. “Game of Thrones”, più o meno “Gioco di Potere”, indica chiaramente come dietro la scusa dei draghi e delle spade, lo show sia una serissima riflessione sul potere e le dinamiche ad esso collegate, a cominciare dalla corruzione che finisce sempre per generare, causando la rovina di chi lo esercita.
Da questo punto di vista, l’ultima stagione non solo non è stata un fallimento ma anzi ha rappresentato il punto più coerente, almeno da un punto di vista tematico, esattamente come coerenti erano state le ultime puntate di Breaking Bad, di The Wire, di Madman ovvero gli show migliori di un’epoca irripetibile che, molto probabilmente, si è chiusa la scorsa notte.
Ciò che funziona da un punto di vista tematico, però, non sempre funziona da un punto di vista emotivo. Essendo riuscito nel miracolo di creare un intero cast di personaggi multidimensionali – compresi alcuni tra i migliori personaggi femminili mai creati -, GoT è finito per diventare vittima della propria grandezza: e cosi’, in tutto il mondo, i componenti del team Daenerys o del team Cersei o del team Jon Snow si sono scagliati contro i creatori, definiti “incapaci” da una petizione che ha raccolto 1 milione di firme, con una furia che in realtà non ha fatto altro che mostrare la loro eccezionale bravura. Creare un simile attaccamento emotivo per dei personaggi di finzione – anche se adattati da una serie di romanzi di successo – è quel genere di soddisfazione che ogni sceneggiatore insegue ma in cui riesce solo una percentuale infinitesimale.
Nonostante questo, la lezione di “Game of Thrones” è rimasta intatta: inon esistono nè eroi nè eroine, niente è scritto e le profezie servono solo a giustificare l’ingiustizia
Tuttavia, visto l’enorme risalto che le critiche hanno ricevuto sulla stampa di tutto il mondo, con il metadiscorso diventato addirittura più popolare del discorso, c’è da chiedersi se, in futuro, gli sceneggiatori di uno show di successo saranno ancora liberi di sviluppare una storia come meglio credono, o se al contrario il populismo invaderà anche l’ambito della fiction, e al grido di “uno vale uno” i telespettatori avranno modo di decidere la sorte dei personaggi, dando sfogo a terrificanti banalità come quelle lette a corredo dei tanti “j’accuse” usciti in queste settimane.
Per ora, l’unico vero difetto che si può imputare all’opera è stato piuttosto il cambio di passo delle ultime due stagioni, quando il ritmo narrativo è cresciuto vertiginosamente, con il risultato che certi passaggi che avrebbero meritato uno sviluppo ulteriore (la morte del Night King, il turn di Daenerys da Liberatrice a Mad Queen, il Nord che diventa indipendente) sono sembrati affrettati e, in certi casi, immotivati. Purtroppo questo è stato, di nuovo, un dazio da pagare al successo della serie, diventata talmente importante da necessitare un budget fuori portata per l’industria televisiva. Le limitate risorse economiche hanno causato una contrazione degli episodi, cosa che a sua volta ha causato quell’accelerazione che ha impedito alla serie di giustificare le proprie scelte non solo da un punto di vista tematico, ma anche emotivo.
Nonostante questo, la lezione di “Game of Thrones” è rimasta intatta: il potere logora anche chi ce l’ha, soprattutto quando pensa di essere o si trova nel giusto; non esistono nè eroi nè eroine, niente è scritto e le profezie servono solo a giustificare l’ingiustizia: ma ognuno è responsabile fino in fondo delle proprie azioni. E anche quando tutto sembra finito, c’è sempre un modo per sistemare “la ruota” e immaginare il futuro.
Il tempo stabilirà la reale importanza della serie e soprattutto la sua eredità. L’eredità dei Sopranos, per esempio, fu la dimostrazione che il protagonista di uno show poteva essere non solo un antieroe ma un vero e proprio cattivo, e da lì abbiamo avuto Breaking Bad, le prime stagioni di House of Cards e via dicendo.
Certo, quello che è accaduto la scorsa notte, con la puntata trasmessa in tutto il mondo alla stessa ora, con milioni di persone con il fiato sospeso incollate allo schermo, è stato un evento a suo modo storico. È stata una vera e propria fine di un’epoca, quella che ha visto la TV come mezzo unificante di una comunità, capace – in occasione dei grandi avvenimenti- di farsi grande come il pianeta.
Da oggi siamo definitivamente dentro un’altra era, quella delle monadi dello streaming, dove ognuno guarda quello che gli pare, all’ora che gli pare. Un’era certamente più comoda, più vantaggiosa, più personale, in cui però diventa sempre più difficile sentirsi parte di un tutto: e questo, in un momento storico in cui tutti avremmo un dannato bisogno di riscoprire ciò che ci rende simili, non sembra essere necessariamente un buon segno.