Di sicuro si sa che è morto. Tutto il resto è avvolto nel mistero. I resoconti sugli ultimi momenti del celebre condottiero mongolo Gengis Khan parlano di una fine incontrata sul campo di battaglia, quando nel 1227 si era spinto nello Yinchuan per combattere contro i Tangut. Forse caduto da cavallo, forse colpito da qualche freccia (come sosteneva Marco Polo). Alcuni, addirittura, sostengono che sia stata una trappola nascosta nel corpo di una donna, una schiava che faceva parte del suo bottino di guerra, alla quale Gengis Khan si era unito.
Oltre alle modalità, è misterioso anche il luogo della sepoltura. Secondo una tradizione piuttosto popolare sarebbe nelle montagne di Burkhan Khaldun, luogo molto caro al condottiero perché, durante uno scontro in cui aveva avuto la peggio, era riuscito a trovare rifugio proprio lì.
Ma il luogo esatto non è noto. Anzi, è uno dei segreti meglio custoditi in assoluto perché, se si deve dare credito alle leggende tramandate, non solo la tomba non avrebbe alcun segno (né templi, né pietre, né altro), ma nessun testimone sarebbe rimasto in vita abbastanza a lungo per poterlo raccontare: i soldati che scortarono il corpo fino alla sepoltura uccisero tutte le persone (e perfino gli animali) che incontrarono nel loro viaggio. Massacrarono anche chi si era presentato al funerale. Loro stessi furono uccisi da un altro gruppo di soldati che, a sua volta, fu ucciso da un terzo gruppo. I cavalli furono lasciati correre sul sito della tomba per cancellarne ogni traccia (anche se questo punto, si affanna a spiegare Franco Cardini nel suo saggio Alle radici della cavalleria medievale, sarebbe più un’eco di qualche credenza religiosa legata al cavallo e alla sua essenza ctonia), e fu fatto passare sopra perfino un fiume. Più di così.
L’area, circa 400 chilometri quadrati venne recintata da un cordone di soldati che ne controllava gli accessi: nessuno poteva entrare. Divenne un’area sacra, la cui violazione veniva punita con la morte. Una tradizione che venne tramandata di generazione di generazione e che perfino i sovietici, per non inimicarsi la popolazione, decisero di rispettare e mantenere. E poi?
Poi sono arrivati gli occidentali e, con loro, gli archeologi. Nel 1990 sono cominciate le prime ricerche coordinate da un team nippo-mongolo, che ha portato a scarsi risultati: tante tombe possibili ma nessuna sicura. Nel frattempo i mongoli cominciano a innervosrisi, si levano le proteste e per prudenza si decide di sospendere le indagini. Per di più interviene anche l’Unesco, che pone altri vincoli e rende l’esplorazione ancora più difficile. Ma gli archeologi non si sono arresi: nel 2010 passano alle immagini satellitari e l’University of California, organizzando un’impresa collettiva con circa 10mila volontari reclutati su internet, chiede loro di vagliare per sei mesi circa due milioni di immagini satellitari. Cosa dovevano cercare? Non lo sapeva nessuno. “Qualcosa di strano”, si diceva.
Anche qui, un buco nell’acqua: la tomba di Gengis Khan sfugge alle curiosità degli studiosi, alle ansie degli archeologi e alle balzane idee occidentali che trovano sempre interessante disturbare i sonni delle figure celebri del passato.