The ®esistanceIsraele, quindici secondi per scappare da una bomba di Hamas. Ecco la generazione “Tzeva Adom”

L'85% dei ragazzi in Israele tra i 4 e i 18 anni soffre di disturbi da stress post-traumatico. Un'intera generazione cresciuta all'ombra dell'allarme «Tzeva Adom», colore rosso. Sono i quindici secondi dal suono della sirena all'impatto, dall'allerta alla corsa per trovare un riparo dalle bombe

JAAFAR ASHTIYEH / AFP

NEGEV, Israele – Dalla finestra della cucina, Tsameret, 52 anni, piatti e detersivo tra le mani, può vedere gli uomini di Hamas. Li può vedere bene, posti in uno dei punti di osservazione del gruppo estremista, perché la sua casa, a Netiv Haasara, dista solo un centinaio di metri dalla Striscia di Gaza. É così vicina alla roccaforte islamista che la sua vita, come quella di altre 200 famiglie che abitano in questa comunità agricola, si strugge, ogni giorno, nella dicotomia dello spazio. Il moshav con le sue case ordinate, facciate bianche e tegole rosse, i suoi spazi verdi, il suo fascino pastorale, le palme, foglie pennate e datteri, gli alberi di limone, i vasi di fiori. Un idillio interrotto dai solchi sulle pareti, l’impronta della discordia, dalla recinzione metallica rinforzata col filo spinato, il confine che costeggia il villaggio, dai muri di cemento e i rifugi anti-bomba lungo le strade, la difesa all’attacco.

Tsameret sta bevendo il caffè, la tazza ancora calda tra le dita, quando l’allarme, il «Tzeva Adom», inizia a suonare. Le mani che tremano, la tazzina che cade, lo sguardo fisso alla finestra. «Ho visto i miei figli correre per strada col terrore in faccia: urlavano, piangevano. Poi, si sono buttati a terra, a pancia giù, con le braccia incrociate sulla testa». L’unico modo che hai per difenderti se sei lontano da un rifugio, anche quello che ti sembra più vicino, perché cinque secondi – solo cinque – sono troppo pochi per rischiare un passo in più. Non importa se lo spazio e il tempo – il “qui e ora”– sembrano dilatarsi, la percezione alterarsi. Non importa se sei sopravvissuto all’accumulo di tensioni a fine anni Novanta, al fallimento del vertice di Camp David nel 2000, alla Seconda Intifada. Non importa se hai superato tre guerre. Ogni sirena è per la prima volta.

Il «Tzeva Adom» ha iniziato a suonare all’alba dello Shabbat. E non ha più smesso. Di giorno, di notte, e ancora all’alba del giorno dopo. Domenica. Perché la mano di Hamas e della sua ala militare, le Brigate ‘Izz al-Din al-Qassam, con la complicità del Jihad Islamico, ha rotto ancora una volta l’equilibrio precario del Sud di Israele. Di quei kibbutzim e di quelle cittadine che costeggiano il fianco orientale della Striscia di Gaza, colpiti nel giro di 24 ore da circa 700 razzi. Il sistema Iron Dome ne ha intercettati molti, ma non tutti. Quelli sfuggiti alle batterie antimissile, hanno distrutto case, perforato tetti, scardinato strade. E ucciso quattro israeliani, il maggiore numero di vittime dalla guerra del 2014.

Si prospettano giorni difficili, con equilibri precari tra il Giorno della Memoria dei soldati uccisi in guerra, mercoledì, il Giorno dell’Indipendenza, giovedì, l’Eurovision Song Contest, festival europeo della musica, che si terrà dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv. E poi, l’inizio del Ramadan e, tra otto giorni, la Nakba, quella che i palestinesi chiamano la catastrofe, la nascita dello Stato ebraico per gli israeliani

Tutto ha inizio venerdì, il 3 maggio, quando i militanti armati del Jihad Islamico, annidati tra i manifestanti della Grande Marcia del Ritorno, la protesta portata avanti dai palestinesi dal 30 marzo dello scorso anno, feriscono due soldati israeliani di ronda sul confine, nell’area di Khan Younis. L’IDF reagisce a colpi di cannone. Quattro i palestinesi uccisi: due membri dell’ala militare di Hamas e due civili. É solo il principio. La tensione si snoda tra scoppi ed esplosioni. Altre bombe. Altri raid aerei. Altri morti. Ad Ashkelon – città di 100.000 abitanti, porto sulla costa mediterranea, 13 chilometri a nord della Striscia – Moshe Agadi, 58 anni, padre di 4 figli, non ce la fa a schivare il missile che sabato centra il cortile della casa della suocera dove avrebbe dovuto passare la notte. Non ce la fa a raggiungere il bunker più vicino. I buchi sulle facciate esterne, la finestra squarciata, i pezzi di intonaco sul pavimento della cucina. Una scheggia gli entra nel petto, un’altra nell’addome. Moshe – nelle parole del fratello, Shai Agadi, «una brava persona, un uomo rispettato da tutti» – non ce la fa a salvarsi. Eccola, l’offesa. L’ennesima che richiama l’attacco. Un altro. Il rombo dei caccia israeliani è forte sotto il cielo di Gaza quando le bombe colpiscono diversi obiettivi sensibili, oltre duecento, siti di lancio dei razzi di Hamas, depositi di armi, un tunnel che attraversa Israele dalla Striscia. Un’incursione che uccide due militanti del Jihad Islamico, ma che pesa anche sulla vita di Falestine Saleh Abu Arar, 37 anni, incinta di 8 mesi, e di sua nipote Saba Abu Arar, una bambina che di mesi ne ha appena 14. Poi, con un attacco mirato che non si vedeva da anni, gli F15 distruggono l’auto guidata da Hamed Ahmed Khudari, un membro di Hamas, l’uomo incaricato di far entrare nella Striscia denaro iraniano in favore delle fazioni armate. Con gli ultimi raid, il bilancio delle vittime palestinesi è salito a 23 persone.

Non c’è tregua. Il fischio dei missili, la sirena, i lampi in cielo, l’aria che trema. E non c’è tregua. La gente che corre, la faccia tesa, lo smarrimento, la paura. E non c’è tregua. Tra sconforto e sgomento – l’immobilità, il silenzio, il pianto di chi resta – la tensione non si arresta. Neanche domenica, primo giorno di Ramadan. La mattina è di nuovo feroce a Sderot, una città di appena cinque chilometri quadrati nel Negev occidentale, 2.000 metri a est di Gaza. Venticinquemila abitanti tra frustrazione e resilienza. Dove le barriere di filo spinato, reti e grovigli di metallo, separano gli israeliani dai palestinesi e il cartello stradale «Sderot», lungo la strada 34 dove si stagliano carri armati schierati, indica quella che in realtà tutti conoscono con un altro nome. La capitale dei bunker. Sderot, appunto. Dove un tempo c’erano tende e baracche, e ora solo blocchi di cemento. Nata nel 1951 come centro di transito per gli immigrati Mizrahi – ebrei orientali, discendenti dalle comunità ebraiche del Medio Oriente, provenienti dal Marocco, dal Kurdistan, dall’Iran e arrivati in Israele perché oggetto di ostilità nei paesi di origine – è diventata negli anni una periferia trascurata e la prima linea, il fronte, il bersaglio prediletto da Hamas che dal 2001 ad oggi, tra tensioni, scontri e tregue interrotte, ha colpito Sderot con oltre 15.000 missili.

Una città dura da vivere. Il triangolo della paura, insieme ad Ashkelon e Netivot. Panico, distruzione, morte. «Ci sono giorni in cui arrivano più di 50 razzi, sabato è stato uno stillicidio», precisa Limor, 34 anni, foulard annodato dietro la nuca – il mitpachat – gonna nera sotto al ginocchio, accovacciata per terra, in un bunker, insieme ai suoi cinque figli nell’unico parco giochi a prova di bomba, il «Caterpillar». «Camminiamo rasenti al muro, dormiamo vestiti e quando siamo in auto guidiamo così – dice puntando con l’indice i veicoli che sbucano dall’incrocio davanti a noi – con il finestrino abbassato, la cintura slacciata e la radio spenta». Altrimenti si rischia di non sentire la sirena. «Non c’è pace, capisci? Guardati attorno». Rifugi antiaerei lungo la strada. Pensiline in cemento armato ad ogni fermata dell’autobus. Un guscio di metallo duro che copre quella scuola laggiù. Barre di ferro e acciaio all’estremità di un asilo vicino, la zona «sicura» durante un attacco. La mamad – una stanza anti-missile in cemento armato, finestra sigillata e porta di acciaio – in ogni singola abitazione. Centinaia di razzi Qassam – chiamati così in nome dell’imam fondamentalista che negli anni Venti incitò ai pogrom contro gli ebrei – davanti alla stazione di polizia, accumulati l’uno sull’altro: due metri di lunghezza, quindici centimetri di larghezza. «Come faccio a proteggere i mie figli dagli orrori della guerra?».

È un’intera generazione cresciuta all’ombra dell’allarme «Tzeva Adom», colore rosso. Sono i quindici secondi dal suono della sirena all’impatto, dall’allerta alla corsa per trovare un riparo. É l’85% dei ragazzi tra i 4 e i 18 anni e con loro centinaia di adulti che soffre di disturbi da stress post-traumatico.

È un’intera generazione cresciuta all’ombra dell’allarme «Tzeva Adom», colore rosso. Sono i quindici secondi – quindici – dal suono della sirena all’impatto, dall’allerta alla corsa per trovare un riparo. É l’85% dei ragazzi tra i 4 e i 18 anni – e con loro centinaia di adulti – che soffre di disturbi da stress post-traumatico. È lo shock, la paura, la regressione. È la difficoltà a dormire, l’ansia da controllare, la minaccia da gestire. È la consapevolezza di Gal, 29 anni, casalinga, madre di quattro figli: «I bambini giocano a “Tzeva Adom”. Uno di loro grida: “Allarme rosso, allarme rosso”, gli altri corrono e si nascondono». Abbassa lo sguardo, un sospiro: «A turno si fingono morti».

Il trauma non diminuisce, non è passeggero, è malattia cronica. E l’inquietudine, lo smarrimento di una popolazione, sembra trovare sollievo solo nel magnetismo dell’ideologia politica. La fede nella Destra. La fedeltà allo Stato. Alon Davidi, sindaco della città – a lungo una roccaforte del Likud – non ha dubbi: «Benjamin Netanyahu è il miglior Primo ministro che Israele abbia mai avuto». E non importa se ad «Hamas e al Jihad Islamico interessa solo portare la morte nella regione», se si soffre da anni sotto il fuoco dei razzi, se a due settimane dalle elezioni, il 25 e il 26 marzo 2019, c’è stata un’altra escalation, l’ennesima, la settima dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, se in questi giorni «è ancora guerra». Non importa. Lui e i suoi cittadini continueranno a supportare la destra conservatrice di Bibi, che durante le ultime elezioni ha ottenuto il 43,52% dei voti, i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, partito guidato dall’ex Ministro della Difesa Avigdor Lieberman, col 10,14%, e le frange religiose. «Perché sono gli unici a fare il possibile per migliorare la situazione nel sud del Paese».

L’indole profonda del Sud-Ovest di Israele si pone al centro della coscienza sionista diventando l’emblema del nazionalismo più radicale che spinge per una linea dura. La battaglia per la legittimità ha guadagnato un valore reale. David Fendel, rabbino e fondatore della Header Yeshiva che ospita oltre cinquecento studenti, ha l’orgoglio nel petto. «I palestinesi stanno cercando di trasformare Sderot in una città fantasma, ma non li lasceremo fare». Nel 2008 – all’alba dell’Operazione Piombo Fuso, campagna militare lanciata per colpire l’amministrazione di Hamas, e tre anni dopo il ritiro delle forze israeliane e degli insediamenti dalla Striscia di Gaza voluto dall’allora Primo ministro Ariel Sharon, una decisione «folle» agli occhi del rabbino – David decide di ricostruire la scuola. Più solida. Più sicura. «Nel soffitto della sala studio, banchi in legno e libri sacri, ci sono 1.500 tonnellate di cemento armato». La protezione dai missili lanciati da Gaza. Lo scudo dei ragazzi che studiano qui ogni giorno. La risposta «a chi ci vuole sconfitti». Una realtà che non è solo affanno e sgomento. Roy, 23 anni, kippah in testa e sguardo fiero, è il volto radicato, forte, risoluto dei giovani, di quelli che non lasceranno mai Sderot, «perché è casa». Il senso di appartenenza, anno dopo anno, è aumentato, il rifiuto a cedere è cresciuto, l’interesse per proteggere e valorizzare la città si è diffuso rapidamente. Instabilità a parte, Sderot continua a crescere. I cantieri sono aperti, le gru alte in cielo. Doron, 54 anni, titolare di un negozio alimentare, nato e cresciuto qui, non ammette smacco. «Hamas ci lancia i missili, e noi costruiamo ancora più palazzi».

L’IDF, intanto, ammassa carri armati, artiglieria pesante e soldati sul confine, ma Hamas sembra non cedere. Perché Gaza e il suo tracollo, simbolo di una precarietà spinosa – complice anche il ritardo, attribuito ad Israele, nel trasferimento di 30 milioni di dollari al mese dal Qatar – diventano il pretesto per ricattare il governo di Benjamin Netanyahu in un momento delicato. Il Giorno della Memoria dei soldati uccisi in guerra che si celebrerà mercoledì; il Giorno dell’Indipendenza, giovedì; l’Eurovision Song Contest, festival europeo della musica, che si terrà dal 14 al 18 maggio a Tel Aviv. E poi, l’inizio del Ramadan e, tra otto giorni, la Nakba, quella che i palestinesi chiamano la catastrofe, la nascita dello Stato ebraico per gli israeliani. Si prospettano giorni difficili, con equilibri precari. Ad oggi, dopo la guerra, per mediazione egiziana c’è solo una fragile tregua.

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