La ricercaTimida e insicura: l’Italia dell’innovazione rischia di perdere il treno dell’Industria 4.0

Tutti sanno che sarà il futuro, ma non tutti sono pronti ad affrontarlo. La verità è che non si può procedere per gradi: l’innovazione digitale, per risultare redditizia, può essere solo totale ed estesa a tutti i punti della catena di valore

Ole Spata / DPA / AFP

A prima vista i numeri sono ottimi, anzi: schiaccianti. Ben il 78% delle aziende italiane ha avviato progetti per implementare l’Industria 4.0 nel proprio comparto produttivo. E solo il 22%, al contrario, è rimasto fermo. È quanto emerge dall’Indagine svolta da Boston Consulting Group, in collaborazione con l’istituto di ricerca Ipsos, sullla diffusione e l’impatto dell’Industria 4.0 nelle imprese italiane. Uno studio che ha coinvolto 170 aziende (piccole, grandi e e medie) per 20 settori diversi. Risultati schiaccianti, si diceva. Ma, appunto, solo a prima vista.

A una seconda occhiata, il quadro comincia a cambiare. La maggior parte delle iniziative avviate, si nota, riguarda progetti di integrazione a bassa intensità (per esempio, l’acquisto di un robot, di una macchina, isolata, per svolgere un compito specifico). Solo il 24% ha approfittato degli incentivi (e dell’hype favorevole all’Industry 4.0 degli ultimi anni) per implementare operazioni ad alta maturità, cioè in grado di intervenire in tutta la catena del valore, e non solo in alcune parti, connettendola e aumentandone il valore aggiunto.

Sono poche aziende, insomma. E, cosa importante, sono solo quelle grandi. Le piccole mostrano al contrario una certa diffidenza: a livello teorico riconoscono le potenzialità delle nuove tecnologie, sia come driver di crescita sia come differenziale rispetto ai competitor. Ma a livello pratico non sanno quantificare la ricaduta dell’investimento: in altre parole, non sanno né quanto né quando ne ricaveranno.

E qui sta il punto: la vera discriminante, la differenza che rende davvero il 4.0 un investimento fruttuoso e determinante è la sua intensità

I dati a disposizione, del resto, risultano sibillini: il 54% di chi ha investito ammette di «non poter fare ancora un bilancio», mentre solo il 25% conclude di averne tratto un risultato positivo. Anche in termini di “conversion cost” (costi di produzione meno il costo dei materiali), l’implementazione dell’Industry 4.0 non sembra entusiasmare, con il 59% che si dice «impossibilitato di poter trarre delle somme, il 16% che non vede legami con l’Industry 4.0 e il 25% che mostra un segno positivo». E qui sta il punto: la vera discriminante, la differenza che rende davvero il 4.0 un investimento fruttuoso e determinante è la sua intensità: «Solo il 14% delle aziende che ha implementato progetti a bassa complessità dichiara un aumento dei ricavi», ma la percentuale sale al 60% «per le imprese che hanno avviato progetti di elevata maturità». In sintesi: se si innova, bisogna innovare tutto, dai macchinari fino alle persone.

È un progetto che, come illustra Giuseppe Marino, corporate office di Hitachi, intervenuto alla presentazione della ricerca di Bcg e Ipsos, «in Giappone va sotto il nome di Society 5.0», espressione che rende bene l’idea, evocando quell’estensione del dominio del digitale a ogni settore della vita quotidiana del cittadino. E, a maggior ragione, della linea produttiva dell’azienda. L’implementazione di digital e di Industry 4.0, allora, dovrà essere integrata in ogni passaggio della catena: dai macchinari alla raccolta dati, la cui analisi attraverso algoritmi di intelligenza artificiale porterà a miglioramenti continui della produzione, dei servizi e della produttività del lavoratore.

Il vero valore aggiunto, però, «risiede nell’essere umano», spiega. Innovare l’azienda non significa migliorare la qualità delle macchine ma, al contrario, «cambiare le competenze dei lavoratori, adattandole al nuovo quadro». Una smart-factory richiede operai smart e, soprattutto, un sistema di lavoro nuovo. «Meno gerarchico, più incentrato sul confronto e sulla condivisione delle idee».

Parole al vento? Slogan? Non sembrerebbe: Hitachi «ha preferito investire nella formazione dei lavoratori interni anziché assumerne di nuovi», evitando il rischio di rottamazione che molti dipendenti temono. «Quando una macchina ha cominciato a occuparsi delle mansioni che, fino a poco tempo prima, erano affidate a delle persone, è intervenuto l’ufficio personale che ha ricalibrato la sua posizione, permettendogli di seguire un percorso di formazione nuovo, in cui poteva acquisire altre competenze che gli permettevano di mantenere il valore aggiunto».

Per questa ragione, come spiega Andrea Alemanno, senior client officer di Ipsos, “l’Industria 4.0 è una rivoluzione copernicana, che va ben oltre l’ottimizzazione dell’attuale», una impresa enorme, collettiva e di valore che, conclude la ricerca, richiede un ampio intervento da parte di regolatori e governi. La maggior parte degli intervistati, «hanno incoraggiato le istituzioni a continuare con l’attuale piano di incentivi», che hanno, come è noto, una doppia funzione: incoraggiare a livello economico e, soprattutto, a livello strategico. Se c’è l’incentivo, allora vuol dire che qualcuno ne usufruirà, cioè che la macchina dell’innovazione prima o poi si metterà in moto. E i manager che hanno a cuore l’azienda per cui lavorano dovranno senza dubbio tenerne conto.