La crociata di Massimo Fini contro il calcio moderno “Basta Var, donne allo stadio e telecronisti esagitati”

Il giornalista autore di "Storia reazionaria del calcio" (Marsilio Editori): "Lo spezzatino delle tv ha rovinato la ritualità del calcio. Ho visto giocare Berlusconi a 19 anni: era alto un soldo di cacio ma pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla"

MARCO BERTORELLO / AFP

Nel mondo ipertecnologico e politicamente corretto di oggi essere reazionario è rivoluzionario. E Massimo Fini, il giornalista più controcorrente d’Italia, è abitutato a sedersi nel posto lasciato libero dal perbenismo retorico all’amatriciana. Sono tanti i tabù infranti dal suo “Storia reazionaria del calcio” (Marsilio Editori), scritto con il giornalista sportivo Giancarlo Padovan. Dal calcio femminile alle bestemmie dei giocatori fino al valore dell’aggressività degli ultras nella nostra società. Con un po’ di nostalgia e ruvida chiarezza, Fini lancia un allarme: l’economia e la tecnologia hanno spogliato il calcio di quegli elementi identitari, mitici e simbolici che hanno fatto la sua fortuna per più di un secolo. Perché il calcio non è solo un gioco. È un rito collettivo, una messa personale, uno specchio dei tempi. I cambiamenti della società si riflettono sul campo e viceversa. Tra Var, telecronisti esagitati, nani e ballerine nei talk show sportivi, scommesse online, partite in streaming, paytv, anticipo del sabato, partita serale e posticipo del lunedì, il dubbio è che abbiamo perso il vero senso del calcio: la sua sacralità. Eppure un tempo, quando i biglietti si compravano al Bar Sport, le partite si giocavano solo alle 15 della domenica e Var era solo un refuso, il mondo del calcio era diverso. Poi è cambiato tutto.

Fini, quando ha iniziato a degenerare il calcio?
Nel 1986. Quando Silvio Berlusconi ha presentato il Milan all’Arena di Milano in stile Super Bowl con attricette e cantanti al seguito. In quel momento è iniziata l’era della tv nel calcio e nulla è stato più come prima. Il problema è che Berlusconi capiva molto di televisione ma non di pallone. Addirittura voleva dividere la partita in quattro tempi perché così poteva mettere degli spot. E dire che l’ho visto pure giocare da bambino.

Dove?
A Milano in via Copernico. C’era un campetto nel cortile dei salesiani. Berlusconi aveva 19 anni e giocava interno. Era un “Venezia”, come si dice dalle nostre parti. Era alto un soldo di calcio ma pretendeva di fare il centravanti e non passava mai la palla. Già in nuce e in forme ancora non pericolose c’era Berlusconi che tutti conoscono oggi. Ma quello era il 1965, altri tempi.

Com’era il calcio d’altri tempi?
La differenza più grande rispetto a oggi è il tifo allo stadio. Ora c’è questa politica degli abbonamenti che costringe i ragazzotti ad ammassarsi tutti dietro le curve, mentre una volta si spalmavano per tutto stadio. Il calcio era uno sport interclassista, poteva capitare che l’imprenditore fosse seduto a fianco dell’operaio. A parte gli “stronzi” che stavano in tribuna d’onore. Ma quelli ci sono sempre stati.

Non mi dica che i tifosi non andavano in curva.
Sì, ma non era tifo organizzato. Si trattava quasi sempre di gruppi indipendenti di amici che usavano la scusa della partita per fare una gita fuori città. Se per esempio il Bologna andava a giocare a Milano si guardava il cielo per capire se ci sarebbe stato tutto il giorno bel tempo. Si prendevano i biglietti al Bar Sport e ci si infilava tutti insieme nella stessa macchina per risparmiare sulla benzina. Era un tifo spontaneo. E ora che abbiamo ammassato gli ultras nelle curve, ci stupiamo se fanno casino. Ma il calcio è anche questo: uno sfogo legittimo dell’aggressività.

Il calcio è uno sport per uomini che sublima quel tanto poco di omosessualità che è in noi senza avere un rimbrotto sociale. Io non sono mai andato con un ragazza allo stadio perché era un rito sacrale e come tutti i riti vuole una concentrazione assoluta. Tu non puoi stare lì vedere la partita e sbaciucchiarti con la tua ragazza. O l’uno o l’altro.


Massimo Fini

Il calcio di oggi è diventato troppo politicamente corretto?
L’aggressività è un aspetto della vitalità umana. Tutte le società che hanno preceduto la nostra hanno cercato di canalizzarla in modo che diventasse innocua. Mentre adesso i tifosi non possono più inalberare striscioni tipo “Forza Vesuvio” se la loro squadra gioca contro il Napoli, perché sennò c’è la discriminazione territoriale. Ma lo stadio non è un club di gentiluomini. Se comprimi l’aggressività in questo modo poi si finisce coi delitti delle villette a schiera di cui parlava Guido Ceronetti. I ragazzi devono avere un modo di esprimere la loro aggressività in modo da tenerla a livelli controllabili. Un classico della nostra società illuminista-occidentale che vuole eliminare la violenza e pensa all’uomo come dovrebbe essere e non come concretamente è. Un pensiero che ha combinato guasti inenarrabili, non solo nel calcio. E lasciate bestemmiare i giocatori.

Non sono un bell’esempio per i bambini.
Se un giocatore prendeva un pestone da un avversario e diceva una sacrosanta bestemmia una volta non succedeva niente. L’arbitro faceva finta di non sentire. Adesso la moviola va a studiare il labiale. Tanto è vero che i giocatori quando si parlano sul campo spesso si mettono le mani davanti alla bocca. Ma questo è solo uno dei tanti esempi di come siamo passati da un divertimento spontaneo a un qualcosa di estremamente regolato e artificiale. Come portarsi la ragazza allo stadio.

Che male c’è?
Il calcio è uno sport per uomini che sublima quel tanto poco di omosessualità che è in noi senza avere un rimbrotto sociale. Io non sono mai andato con un ragazza allo stadio perché era un rito sacrale e come tutti i riti vuole una concentrazione assoluta. Tu non puoi stare lì vedere la partita e sbaciucchiarti con la tua ragazza. O l’uno o l’altro. Lancio una provocazione: lo stadio dovrebbe essere vietato alle donne.

Immagino che quest’estate non vedrai il mondiale femminile di calcio.
Me ne guardo bene. Una donna che si interessa di calcio mi fa strano, figurarsi una che stoppa un pallone col petto. Ci sono altri sport in cui le donne eccellono rispetto agli uomini, come la pallavolo. Secondo me il calcio è un fatto puramente maschile. E lo dico anche se il coautore del libro, Giancarlo Padovan, è stato più volte allenatore di squadre femminili.

Nel libro spieghi che la televisione ha tolto l’ultimo luogo dedicato al sacro: lo stadio. Però grazie alla tv più persone possono vedere sempre più partite. Non è il trionfo del calcio?
Il trionfo del business televisivo direi. Il venerdì c’è l’anticipo di B, il sabato la Serie B e l’anticipo di A, la domenica pomeriggio le tre partite più scrause, il match clou la sera, il lunedì il posticipo poi il martedì e mercoledì c’è la Champions league. Un overdose più che uno sport. E ci tocca sorbire il giovedì quella cosa comica dell’Europa league dove finiscono le squadre scartate nella Coppa dei campioni. Ma lo spezzatino non ha solo rovinato il rito della partita la domenica alle 15.

Cos’altro?
È scomparso un altro sub-rito, quello del sabato quando si andava a giocare al Bar Sport la schedina del Totocalcio che ora non esiste più. In quel contesto si discuteva delle partite, si facevano previsioni, c’era un senso di comunità. Un tempo si parlava della partita il lunedì mattina in ufficio o in fabbrica, ora il calcio moderno è così farcito di talk show che siamo stati espropriati della chiacchiera da bar.

La partita di calcio è come la messa: non ci vai se non credi o se sei distratto, ma segui i riti e le sue formule anche se da fuori sembrano assurde. E come ogni rito il calcio vuole una concentrazione assoluta. Purtroppo l’economia e la tecnologia hanno spogliato il calcio di quegli elementi identitari, mitici e simbolici che hanno fatto la sua fortuna


Massimo Fini

Cosa c’è che non va nei talk show?
Un conto è quando parlano gli esperti di calcio. Se parla Fabio Capello che ha giocato, allenato e vinto, lo sto ad ascoltare. Ma nei talk show sportivi ci sono individui che non si capisce per quale motivo abbiano l’autorità di chiacchierare di sport. Come Giampiero Mughini che faceva le parallele quando tutti noi giocavamo a calcio. Il fondo l’abbiamo toccato con le trasmissioni dopo le partite della Coppa del mondo, l’unica competizione decente rimasta perché rappresenta lo spirito delle nazioni. Quei talk show erano un cavanserraglio di vallette, nani e ballerine che poco c’entra col calcio.

Anche le telecronache moderne non ti piacciono.
Per i telecronisti di oggi ogni parata, ogni passaggio, ogni goal è una cosa straordinaria. Ma sono cose che abbiamo visto migliaia di volte. In confronto Bruno Pizzul era un gigante, capace di raccontare la partita in modo sobrio senza togliere il pathos. Le telecronache urlate sono la conseguenza di questa epoca urlata, sempre sopra le righe, soprattutto in politica. L’anno scorso per caso ho sentito una partita senza la telecronaca, sembrava di stare lì nello stadio con il rumore del pallone toccato dai giocatori, i contrasti, il tiro. Non male. Certo, non è come andare allo stadio.

Qual è la differenza tra guardare la partita allo stadio e in tv?
La stessa che c’è tra giocare a biliardo con altre persone e stare davanti a una slot machine. Anche se si vede la partita in tv con qualcuno non si potrà mai vivere la stessa esperienza di stare a contatto con quel mondo eterogeneo che si trova allo stadio. La partita di calcio è come la messa: non ci vai se non credi o se sei distratto, ma segui i riti e le sue formule anche se da fuori sembrano assurde. E come ogni rito il calcio vuole una concentrazione assoluta. Purtroppo l’economia e la tecnologia hanno spogliato il calcio di quegli elementi identitari, mitici simbolici che hanno fatto la fortuna di questo gioco per più di un secolo.

Immagino che non ti piaccia il Var. Però a suo modo crea un nuovo rito: quello di aspettare la decisione dell’arbitro che fa con le mani il segno dello schermo. In fondo è un simbolo anche quello.
Sì, ma è una ritualità perversa quella del Var perché toglie il momento dell’emotività spontanea. Non si esulta nello stesso istante del goal, ma cinque minuti dopo, quando in campo non sta succedendo nulla.

“Storia reazionaria del calcio”, è un inno alla nostalgia del calcio del passato. Ma sono nate da anni pagine Facebook che osannanno la Serie A degli anni Novanta dei vari Dario Hubner e Benny Carbone. Ogni generazione è destinata ad amara il calcio di quando si era bambini?
È ovvio che in queste iniziative la nostalgia fa la sua parte. Capita addirittura di ricordarsi cose che poi magari non sono neanche avvenute o erano meno belle di quello che pensavamo. Per esempio mi ricordavo di aver visto da bambino un tiro di Ferenc Puskás all’incrocio dei pali che mi sembrò meraviglioso. Da poco l’ho rivisto in televisione ed è era un tiro normale, ma ancora quel ricordo ce l’ho ben impresso nella mente. Per noi ragazzi degli anni Cinquanna il calcio è stato tutto. Il tennis era roba da ricchi, lo sci lo conosceva solo chi stava in montagna, il basket era troppo americano.

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