Bastone e carotaMichela Murgia scopre l’acqua calda. Meglio il libro di Maria Antonietta, professione cantautrice

Il bastone e la carota. Un libro elogiato e uno stroncato alla settimana. Michela Murgia ammanta i suoi racconti di un’ideologia che sciupa la scrittura. Maria Antonietta racconta vite di “ragazze imperdonabili” con uno stile sorvegliato e acceso

Dal video di Pesci, di Maria Antonietta

Il bastone. Tre cose non mi convincono, la prima è spaparanzata sulla fascetta che lega il libro, “l’unione fa la forza!”. Una vieta tautologia, che dovrebbe essere vietata allo scrittore, virtuoso che esplora gli scandali e gli ignoti. Adagiandosi tra le poppe del motto, invece, Michela Murgia costruisce l’ideologia che regge la sua raccolta di racconti, Noi siamo tempesta– invero, ottimamente illustrati da The World of Dot. Secondo la Murgia, “la stragrande maggioranza” delle storie che hanno forgiato la nostra giovinezza “racconta la vicenda di un eroe solitario con un destino glorioso, spesso abbandonato da chi doveva accudirlo (come Pollicino e Mosè), cresciuto alla periferia di qualcos’altro (come Harry Potter o Luke Skywalker) e chiamato ad affrontare mille prove per affermarsi (come Ulisse e Ercole)”. Alla Murgia, insomma, non garba la categoria dell’eroe – queste, infatti, sono “storie senza eroe” – né che “siano l’x factor, l’eccellenza individuale, il talento raro di singole persone a fare la differenza davanti alle sfide del mondo”. Al contrario della Murgia, io credo che questo sia un tempo che tenda ad annichilire il talento raro di singole persone, riducendoci a una massa insapore di individui privi di individualità – ma colti da delirio narcisista – che come metro di misura del proprio destino posseggono soltanto il portafogli. Magari i nostri figli tornassero alle storie degli eroi, a Mowgli, a Ulisse, a Lord Jim, a Moll Flanders, oppure a Guerra e pace, l’epopea del popolo (russo) contro l’uomo solo al comando (Napoleone), tanto per dire che la Murgia nulla inventa… Ma questo poco importa.

Importa, piuttosto, che la Murgia propini per vera una mezza bugia: il mondo greco è dominato da individui nelle mani maliziose e bastarde degli dèi; quello ebraico è retto da un Dio che opera per la salvezza di un popolo, Israele, non certo per la gloria di uno; Dante non va da nessuna parte senza Virgilio e Beatrice; il cristianesimo non esiste se non “dove sono due o tre riuniti nel mio nome”; Luke Skywalker non sarebbe lui senza gli insegnamenti di Obi-Wan Kenobi e Yoda (in effetti, il ciclo di “Star Wars” racconta la storia dell’Allenza Ribelle per la Repubblica contro l’Impero Galattico, in sostanza democrazia vs. tirannia, governo di tutti vs. potere nelle mani di uno). Insomma, è davvero ovvio che “l’unione fa la forza”, anche gli Avengers (che “l’x factor”, come dice la Murgia, ce l’hanno eccome) da soli non vanno da nessuna parte.

Nella sua azione ideologica e narrativa atta a disintegrare l’individualità, però– punto numero due – la Murgia un po’ si incarta – nelle sue storie, comunque, c’è sempre uno, un individuo, un eroe, che guida gli altri: Jimmy Wales e Larry Sanger nel racconto (bruttino) che dice la nascita di Wikipedia; Tommie Smith in quello che fa l’elogio del pugno nero al cielo durante i giochi olimpici di Città del Messico, nel 1968; Maria Lai, l’artista, in Legarsi alla montagna; Salvatore Lo Bianco nel testo più riuscito, che racconta la nascita della Stazione Zoologica di Napoli – un po’ svariona. Il racconto sulla battaglia delle Termopili, infatti, è un’ode spianata al militarismo spinto (“fare quello che va fatto sarà comunque la nostra vittoria”),e comunque, è vero che “l’unione fa la forza”, ma qui un comandante, un capo, un eroe c’è, si chiama Leonida. Che poi a Sparta vigesse “un’abominevole disparità di condizioni sociali tra i cittadini” (questo è Plutarco) è un dettaglio, poco importa.

Allo stesso modo – mi riferisco al divertito racconto a fumetti Le streghe della notte è un poco parziale – soprattutto se il libro va in mano a degli studenti – scrivere che “La rivoluzione d’ottobre del 1917 introdusse una nuova categoria di uguaglianza, quella dei lavoratori e delle lavoratrici, che in nome del lavoro equiparò molti diritti degli uomini e delle donne, le quali da quel momento poterono anche votare”. In effetti, quella uguaglianza e quei diritti furono conquistati da alcuni in favore dei propri, a discapito di altri e di altre libertà. A puro titolo di esempio va ricordato che il 7 novembre del 1917 viene varato il ‘Decreto sulla stampa’, che “introduceva la censura e chiudeva tutti i giornali e le riviste che avevano un atteggiamento critico nei confronti del potere”(Andrej Siskin) e che all’alba del 1919 tutte le iniziative editoriali private vengono impedite, sostituite dalle micidiali Edizioni di Stato, ‘Gosizdat’, con eminenti compiti censori. Dettagli. Il “femminismo in Unione Sovietica” fu, come scrive la Murgia, “molto precoce rispetto al resto del mondo”: basta non dirlo al resto del mondo femminile sovietico, a Marina Cvetaeva, ad esempio, costretta a mendicare in mezza Europa e trattata come una reietta in Urss (fino a impiccarsi, non la volevano neppure come lavapiatti), a Zinaida Gippius, scrittrice di genio, vagamente lesbo, che scappa, dopo la Rivoluzione, a Varsavia e poi a Parigi, in ristrettezze, ad Anna Achmatova, a cui fucilano il marito Nikolaj Gumilëv – ottimo poeta – e imprigionano il figlio Lev, assegnandole il callido epiteto “suora e prostituta”, a causa della poesia troppo intima, solidale all’io, individualista. Dettagli.

La terza cosa che non mi convince di questo libro è più semplice. La scrittura. Buttata lì, appena sbozzata, brutta, inodore, incolore (banalità all’amatriciana su Roma, ad esempio: “Essere stata per tanto tempo la capitale del più grande impero di sempre l’ha fatta diventare il centro di molte culture, lingue, usanze”). Si capisce: quando il tema prevale sulla forma e l’impegno ‘sociale’ cannibalizza la disciplina letteraria, la scrittura si sciupa, si sbriciola.Ma in assenza di forma, il contenuto non passa: non basta scrivere “A volte mi manca casa mia, mia madre e la sua parmigiana, le mie sorelle che mi vogliono bene, persino mio padre mi manca a volte”, per farci avvertire il dramma degli omosessuali relegati nell’isola di San Domino sotto il Fascismo. Non basta abbozzare un racconto – che naufraga fin dall’incipit: “Sono le due del mattino del 12 ottobre 2018 quando alla nostra nave arriva gracchiante uno stentato SOS” – per narrare il dramma dei migranti nel Mediterraneo e le imprese della nave ‘Mare Jonio’. Ci vorrebbe, appunto, meno ideologia e più cura narrativa, “giacché l’estetica è la madre dell’etica”, diceva Iosif Brodskij, il grande poeta, uno sporco individualista che ha avuto l’ardire di scappare dalla Russia Felix, certo che “quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo… tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero – anche se non necessariamente più felice – sarà lui stesso”. Per la Murgia, immagino, paladina del nuovo ‘realismo socialista’, queste asserzioni appariranno incomprensibili.

Michela Murgia, Noi siamo tempesta, Salani Editore 2019, pp.126, euro 16,90

La carota. Maria Antonietta – cioè, Letizia Cesarini – cantautrice con il guru poetico nelle arterie, ha capito una cosa semplice. Per scegliere di diventare gruppo, massa, “unione che fa la forza”, occorre costruire la propria individualità – eventualmente per distruggerla – occorre capirsi per sconfiggersi, bisogna – direbbe Rimbaud – tentare la propria anima, fino a renderla mostruosa.
Così, come si faceva nelle antiche agiografie, le sugose storie dei santi – dove gli eroi erano semplicemente uomini, lo specchio del nostro conforto, una finestra sullo sconfinato, senza altra abilità che l’obbedienza al proprio destino, la capacità di incaricarsi del fato –, Maria Antonietta ha raccolto le vite diSette ragazze imperdonabili (più una), interpretandole in racconti di dedicata sapienza.
“Mi hanno insegnato a essere pronta al fatto di non sentirmi mai pronta di fronte a nulla di ciò che accade, o potrebbe accadere, in questa vita. E pur non sentendomi pronta, a non sottrarmi mai. Mi hanno insegnato che quello che dici e fai esiste, e ha valore, anche senza un pubblico, che non è l’approvazione di qualcuno che rende valido e vero il tuo lavoro, o quello in cui credi, o quello per cui combatti”, scrive la cantautrice introducendo il suo “Libro d’Ore”, così lo chiama, rinnovando un linguaggio liturgico, perché i poeti vanno vissuti verso per verso e sofferti e salmeggiati.
Le storie di Emily Dickinson e di Marina Cvetaeva, di Antonia Pozzi e di Giovanna d’Arco, di Cristina Campo, di Etty Hillesum e di Sylvia Plath, di cui si ricalca una antologia di testi, costruiscono un eroismo spesso a contrario, in negativo, una assunzione di eremitaggio, il suggerimento di una vita di diamante pur votata al monastero dell’arte.
La scrittura di Maria Antonietta è dominata e accesa (“La doccia gelata mi inchioda alla realtà, e l’acqua mi continua a scorrere sulle braccia, sul petto, giù per le gambe e ancora più giù, fino alle punte dei piedi. Mi tiene qui, bene ancorata in questo punto. Mi dice: “Non andartene, non essere egoista”. Mi costringo a restare sotto il getto per qualche minuto, cerco di tenere fisso lo sguardo sul mulinello che l’acqua crea mentre scompare dentro al buco dello scarico, diretta verso qualche meta esotica che posso solo immaginare”), delicatamente folle (“Il cielo di questo 2 dicembre è bianco e distante, ben al di sopra di me, assomiglia tanto a mio padre”): è questo il libro che dobbiamo diffondere, spargere, spacciare nei corridoi delle scuole di ogni ordine e grado. Prima di essere moltitudine, siamo soli, siamo uno, un punto, un niente, che pure ha volto e identità, e virtù di verbo.

Maria Antonietta, Sette ragazze imperdonabili, Rizzoli 2019, pp.156, euro 17,00

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