Due obiettivi su tre sono stati raggiunti. Uno: il Pd è ampiamente sopra il 20 per cento. Due: ha superato agevolmente il Movimento 5 Stelle. Il terzo obiettivo, che corrispondeva a un ridimensionamento della Lega rispetto agli ultimi sondaggi resi noti quindici giorni prima delle elezioni, decisamente no. Per Nicola Zingaretti il bilancio di queste elezioni europee è da considerarsi positivo. Non un successo, però, quanto più un pericolo scampato.
Se infatti, dei tre obiettivi, se ne fosse concretizzato solo uno, o addirittura nessuno, il fuoco amico (espressione ormai abusata da Matteo Renzi) si sarebbe alzato in tempo zero sul segretario, facendo partire un film già visto troppe volte. Invece, limitati i danni, il governatore del Lazio ha deciso di rilanciare fin da subito. Non ha avuto timori ad andare davanti alle telecamere a dire che «il bipolarismo è tornato» e che «ogni alternativa passa per il Pd».
Affermazioni che però impongono diverse riflessioni. Intanto dire che il bipolarismo è tornato, anche alla luce dei risultati, sembra un po’ sbrigativo. O quantomeno, se davvero ci trovassimo davanti a questo scenario, per il centrosinistra ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Il polo di destra, sulla scia dell’incetta di voti della Lega, surclasserebbe una coalizione di centrosinistra. Ha ragione Zingaretti quando dice che l’alternativa passa per il Pd, anche perché a sinistra-sinistra la debacle è stata completa e fragorosa. E non si capisce se il Movimento 5 Stelle, in piena crisi di identità, possa essere considerato un interlocutore credibile o meno.
Quando parla di alternativa, il Pd dovrebbe pensare non tanto a questo governo, le cui prospettive sono ormai limitate, quanto più al governo di destra-centro che si prefigura all’orizzonte. E se è vero che, come dice ancora Andrea Orlando, «bisogna tornare subito al voto», allora i dem devono organizzarsi bene e soprattutto in fretta.
Il Pd è primo partito a Torino, Milano, Genova, Roma, Cagliari, in molte città dell’Emilia e della Toscana. A Firenze e Bologna le percentuali sono addirittura bulgare
Il Nord Italia, cioè la parte più produttiva del Paese, è interamente in mano a Salvini. Il “partito del Pil”, quello degli industriali che, si diceva, stavano voltando le spalle alla Lega, ha deciso di dare un’ulteriore apertura di credito alla destra, a dispetto dell’effimera incetta di voti di Pisapia e Calenda. Anche in Emilia-Romagna, per la prima volta nella storia, la Lega ha (di poco) superato il Pd. Nel centro Italia, regge la Toscana (l’unica regione in cui i dem sono primo partito), crollano Umbria e Marche, limita i danni il Lazio. Nel Sud il Pd è il terzo partito, dopo Cinque Stelle e Lega, e in ottica nazionale è il dato che dovrebbe preoccupare di più. In queste elezioni, l’affluenza, infatti, è stata massicciamente più bassa nel Mezzogiorno, e se proiettassimo le percentuali al livello del dato del 2018, i grillini vedrebbero le loro scarse percentuali di oggi aumentare vistosamente.
Da dove ripartire, dunque, per Zingaretti? Il Pd è primo partito a Torino, Milano, Genova, Roma, Cagliari, in molte città dell’Emilia e della Toscana. A Firenze e Bologna le percentuali sono addirittura bulgare. C’è una parte del Paese, evidentemente minoritaria, rappresentata dalle aree metropolitane più importanti e avanzate, in cui la narrazione salviniana ha fatto meno breccia che altrove. È per questo che non è sbagliato pensare ai Dem come il primo vero partito metropolitano d’Italia.
Quella tra città e provincia non è una contrapposizione nuova. E neppure inedita. Funziona così in Europa (da Londra a Parigi, da Berlino a Barcellona) e nel mondo (si pensi alla New York di Bill De Blasio e all’America rurale di Trump). Dentro questo dato, però, si nota come il Pd abbia percentuali altissime nei centro città, da Roma a Milano, che vanno via via calando più ci si sposta verso le periferie. Quella che solo qualche anno fa era la prevalenza del centrosinistra nella stragrande maggioranza dei centri principali, anche in provincia, oggi si limita ai nuclei più ristretti delle grandi città.
Per capire l’Europa di oggi bisogna andare nelle periferie, dove gli odiati palazzoni incombono su strade vuote, dove il rombo delle superstrade riecheggia tra le macchie di bosco
Scrive l’Economist: “Un tempo la distinzione fondamentale era tra destra e sinistra. Ora si ragione su un’altra scala politica, ideata da David Goodhart, che prende come estremi il somewhere (da qualche parte) dei piccoli centri e l’anywhere (l’ovunque) delle grandi città cosmopolite. Le periferie delle grandi città sono i luoghi dove stanno avvenendo i cambiamenti maggiori, dove l’internazionalismo europeista delle città incontra lo scetticismo delle campagne. Per capire l’Europa di oggi bisogna andare nelle periferie, dove gli odiati palazzoni incombono su strade vuote, dove il rombo delle superstrade riecheggia tra le macchie di bosco, dove gli anywhere si mescolano ai somewhere”.
Periferie e grandi centri di provincia: ecco la nuova trincea dove il Pd si deve mettere l’elmetto e combattere, se vuole davvero provare a contendere il Paese alla destra.