Il Primo Maggio è la seconda festa civile italiana per importanza dopo il 25 aprile, con una grande differenza. Sul Primo Maggio non si litiga. Non c’è partito che faccia battute urticanti. Non c’è figura estremista che si metta dall’altra parte rivendicando gli assalti alle Camere del Lavoro degli anni ’50 e ’60 oppure la bastonatura dei braccianti e degli operai in sciopero. Si dirà che la giornata è collegata a un valore impossibile da disconoscere: anche il fascismo evitò di abolirla ma la accorpò al 21 Aprile, il Natale di Roma. Tuttavia il Primo Maggio dei nostri tempi suscita modeste discussioni soprattutto per un altro motivo: con questa parola, lavoro, nessuno sa più cosa farne, cosa dirne, persino cosa pensarne. Non a caso, da molto tempo, la celebrazione nazionale della ricorrenza consiste in un concerto e non in una manifestazione politica che richiederebbe una piattaforma, un’elencazione di priorità, obiettivi rivendicativi chiari dei quali c’è scarsa traccia nei sindacati come nelle loro controparti. Non c’è più conflitto. Non c’è più contesa. Non ci sono più idee oltre a una sommaria manutenzione dello status quo, o alle generiche rassicurazioni, come quelle ascoltate ieri dopo la diffusione dei dati sull’incremento dello 0,2 per cento del Pil.
Sul tema più controverso del momento, il salario minimo, sindacato e imprenditori hanno la stessa convinzione: esiste in tutta l’Unione ma a noi non serve. Sulla lotta al precariato, in occasione del recente Decreto Dignità, hanno mostrato la stessa perplessità, sostenendo che le norme impositive sono controproducenti. Sulla robotica e la robot-tax di cui molto si è parlato in Europa non risultano opinioni specifiche. Così come non esistono proposte definite sulla fuga di braccia e cervelli – arrivata ormai a 300mila unità l’anno – dall’Italia all’estero, o su altre rilevazioni sconcertanti degli ultimi tempi: i diecimila medici italiani scappati in un decennio verso Paesi e stipendi più confortevoli; le cucitrici pugliesi dell’alta moda che fanno asole a 2 euro l’ora; le persone inattive tra i 25 e i 29 anni arrivate al 34 per cento.
Non esistono proposte definite sulla fuga di braccia e cervelli – arrivata ormai a 300mila unità l’anno – dall’Italia all’estero, o su altre rilevazioni sconcertanti degli ultimi tempi: i diecimila medici italiani scappati in un decennio; le cucitrici pugliesi dell’alta moda che fanno asole a 2 euro l’ora; le persone inattive tra i 25 e i 29 anni arrivate al 34 per cento.
Qualche giorno fa un mio giovane conoscente mi ha raccontato di essere stato preso per lavorare da steward in un grande evento romano. Lo pagheranno 4.50 euro l’ora per otto ore al giorno. 36 euro per una settimana, totale 252 euro. Era molto contento, si è fatto pure raccomandare per ottenere il posto (la concorrenza era enorme) e senz’altro andrebbe benissimo se fosse un ventenne. Ma ha 27 anni, è laureato con tanto di specialistica, e ha pure un lavoro “normale” (cioè specializzato ma intermittente, a 200 euro a settimana) che nei giorni della manifestazione lascerà a un suo cugino alimentando così un circuito amicale in cui tutti guadagnano qualcosa come si può e quando si può. Cosa può raccontare il Primo Maggio a questo ragazzo? Cosa possono dirgli il sindacato italiano e l’impresa italiana? E la politica, che cosa ne dice?
Lunedì scorso, per l’intera giornata, la Camera ha discusso l’introduzione dell’educazione civica nella scuola secondaria. Grazie a Radio Radicale è stato possibile ascoltarne gran parte, con decine di interventi di tutti i partiti e citazioni a valanga – dal valore degli alpini ai rischi del cyberbullismo – sulle cose che si dovrebbero insegnare ai ragazzi per farne buoni italiani. Non uno che abbia richiamato la necessità di informarli sui loro futuri diritti di cittadini, di persone e di lavoratori, che pure sono parte essenziale della nostra Costituzione e sono un oggetto sconosciuto alle giovani generazioni. L’idea stessa di avere dei diritti pare tramontata, dimenticata. L’ultimo anello della catena produttiva nazionale, i riders della consegna a domicilio, di recente hanno avviato una battaglia per rivendicare più mance dai clienti ricchi: l’idea di chiedere un trattamento economico più onesto dai loro padroni non li ha nemmeno sfiorati.
I rider della consegna a domicilio, di recente hanno avviato una battaglia per rivendicare più mance dai clienti ricchi: l’idea di chiedere un trattamento economico più onesto dai loro padroni non li ha nemmeno sfiorati
È probabile dunque che lo svuotamento del Primo Maggio sia un fenomeno irreversibile. La percezione del valore della festa sta scomparendo anche tra i suoi destinatari. Il racconto del lavoro, specialmente quello giovanile, è da tempo monopolizzato dall’ideologia della Silycon Valley e dal caporalato digitale. Ma esistono in Europa classi dirigenti che hanno saputo interpretare i tempi nuovi regolandoli, almeno in parte, evitando il fenomeno che in Italia ha trasformato l’occupazione in una gara al massimo ribasso. Di recente c’è stato molto dibattito tra gli economisti sul preteso sorpasso della Francia rispetto all’Italia come secondo Paese manifatturiero del Continente: si è scoperto che l’Italia resta effettivamente seconda dopo la Germania, ma solo perché il valore aggiunto della sua produzione (cioè il valore totale meno i costi di produzione) è maggiore visto che il costo orario del lavoro in Italia è un quarto più basso di quello francese. È questo che ci ha conservato il nostro primato in classifica, del quale possiamo continuare a inorgoglirci salvo chiederci come si fa a rilanciare i consumi interni se i salari (altra analisi recente) restano fermi a vent’anni fa: appena 400 euro l’anno in più rispetto ai 5.000 della Germania e ai 6.000 della Francia.
Solo in un deserto di proposte e azioni un’idea banale e piuttosto rozza come il reddito di cittadinanza poteva risultare tanto rivoluzionaria da spianare tutto
L’afasia del sindacato, dell’impresa, della politica nella Giornata del Lavoro è dunque pienamente comprensibile. L’unica cosa che potrebbero fare è un generalizzato e irrimediabile mea culpa, posto che dagli anni Novanta a oggi si sono dedicati ad attività conservative dei rispettivi poteri spacciandole un po’ tutti per riformismo avanzato. Saranno intervistati. Compariranno sui palchi. Faranno le loro dichiarazioni e le loro promesse. Ma alla fine metteranno in mostra solo le rispettive fragilità, peraltro confermate da un dato politico elementare: solo in un deserto di proposte e azioni un’idea banale e piuttosto rozza come il reddito di cittadinanza poteva risultare tanto rivoluzionaria da spianare tutto. Solo in uno scenario di senescenza e declino il 30 per cento degli italiani può pensare che la priorità del Paese sia tener fuori gli immigrati anziché tener dentro i nostri laureati, camerieri, tornitori, medici e falegnami.