All’inizio di questo decennio, quando la parola “populismo” non veniva utilizzata da nessuno, le speranze della sinistra mondiale si concentravano sullo Zuccotti Park di Manhattan, sede ufficiale del movimento chiamato “Occupy Wall Street”. Avete presente quella retorica sulle élite, i burattinai tipo Soros, la lotta contro l’1% del mondo che controlla il destino del restante 99%? In buona parte è nato tutto lì. Sulle prime, il movimento suscitò grande entusiasmo, tanto che Zuccotti Park divenne una meta irrinunciabile per ogni icona liberal che si rispetti. Beyonce, Lady Gaga, Susan Sarandon, perfino un giovane Roberto Saviano: farsi fotografare tra i manifestanti, indossando una mise in stile Coachella fuori stagione, era un vero e proprio must. I media avvertivano che era in corso “una rivoluzione”, ma il tutto perse slancio rapidamente: in piena era Obama, la sinistra pensò che era più prudente concentrarsi su temi più abbordabili e meno imbarazzanti per la propria classe dirigente, come il femminismo o l’ambientalismo, e i cinquanta giorni di occupazione di Zuccotti Park caddero nell’oblio.
Fastforward di quasi un decennio, giovedì scorso, a Wall Street, c’è stata la quotazione in borsa di Uber, la più attesa da quando avvenne quella di Facebook. Dentro il palazzo, è stata una festa a metà: la cifra-record di 120 miliardi di dollari a cui puntava l’azienda si è rivelata irrealistica, con gli investitori che si sono dovuti accontentare di 82. Nel frattempo, all’esterno andava in scena la protesta degli autisti, non solo di Uber ma di tutte le app del settore, che chiedevano una paga migliore, più sicurezza, più tutele, insomma quel pacchetto di rivendicazioni che erano considerate standard nel ventesimo secolo e che oggi, per i lavoratori della gig-economy, rappresentano una specie di miraggio.
Benché fossero presenti in forze, e analoghe manifestazioni si siano tenute a Londra, Chicago e in diverse città della California, inclusa la proclamazione di uno sciopero di qualche ora, della protesta dei drivers si è parlato gran poco. Non solo al loro fianco non c’erano né pop star né attori di Hollywood ma le icone liberal, questa volta, erano tutte schierate dall’altra parte della barricata: Beyonce, in prima fila durante Occupy Wall Street, ha visto il suo pacchetto di azioni Uber aumentare di valore fino alla bella cifra di 9 milioni di dollari. E la stessa cosa è accaduta alle azioni detenute da altri pesi massimi dell’immaginario democratico, come Jay Z, Arianna Huffinghton, la paladina del me too Olivia Munn e via di questo passo.
Un decennio dopo Occupy il sistema finanziario globale e le sue dinamiche sono state perfettamente sdoganate e tollerate da un’opinione pubblica progressista ipersensibile per i diritti di tutti, eccetto quelli dei lavoratori
Certo ognuno può investire i propri guadagni come crede, e per loro fortuna le celebrities americane, quando si tratta di venture capital, sono molto più oculate di buona parte di quelle di casa nostra, basta vedere cosa è successo ancora in settimana al tennista Andreas Seppi. Quello che stupisce, tuttavia, è come un decennio dopo Occupy il sistema finanziario globale e le sue dinamiche siano state perfettamente sdoganate e tollerate da un’opinione pubblica progressista ipersensibile per i diritti di tutti, eccetto quelli dei lavoratori. Negli ultimi anni, le aziende che hanno ricevuto le quotazioni più alte in borsa sono state quelle più “disruptive” ovvero quelle che hanno travolto i propri settori di riferimento con risultati che spaziano dal “negativo” al “catastrofico” per i lavoratori. Ci sono stati talmente tanti casi che si potrebbe formulare una nuova legge economica: all’aumentare del costo sociale causato da un’azienda, aumenta anche il valore dell’azienda stessa al momento della quotazione in borsa.
Si tratta di una legge che è un formidabile generatore di risentimento, ovvero della benzina che alimenta i populismi di tutto il mondo, che però non viene contestata da nessuno: in America ci si indigna se qualcuno osa pronunciare la parola “mulatto” invece che la politicamente corretta “biracial”, ma si tollera l’esistenza di una forbice che dai tempi di Zuccotti Park non ha fatto altro che allargarsi a velocità mostruosa. È vero che esistono i Sanders, le Ocasio-Cortez e il millenial socialism: ma è anche vero che il livello di concretezza delle loro proposte politiche è ancora tutto da dimostrare, e che a livello globale – per non dire dell’Italia – l’agenda di sinistra sembra avere ben altre priorità che obbligare le multinazionali “disruptive” a pagare le tasse o tutelare i diritti dei lavoratori che per quelle multinazionali lavorano.
Si potrebbe formulare una nuova legge economica: all’aumentare del costo sociale causato da un’azienda, aumenta anche il valore dell’azienda stessa al momento della quotazione in borsa
Viene allora da chiedersi quanto manca finché qualcuno si stanchi di aspettare e decida di colmare il vuoto. Se, insomma, davanti all’inazione della politica e alla connivenza dell’opinione pubblica, non salti fuori una nuova Greta Thunberg stufa si consegnare il pianeta ai populisti, che invece di proclamare uno sciopero contro il cambiamento climatico lo proclami contro gli squilibri del sistema finanziario, rimettendo all’ordine del giorno l’agenda di Occupy Wall Street.
A quel punto, lo stigma sociale che oggi circonda chi ancora si azzarda a negare il cambiamento climatico, inizierà a circondare anche chi non perde un giorno per attaccare Trump nel nome del popolo e poi s’intasca milioni di dollari grazie all’azienda che più di ogni altra ha contribuito a creare, nel popolo, le condizioni ideali per trasformare i Trump di tutto il mondo in governanti. Quello sarà un grande giorno per i lavoratori, ma un pessimo per politici e icone liberal: i primi perché potrebbero trovarsi senza lavoro, i secondi perché, finalmente, finirebbero sommersi da milioni di meritatissime pernacchie.