«Ognuno deve fare la sua parte, non ambisco a ruoli di leadership». «Il partito ora è più unito, vuole chiamare a raccolta parte della società e mi auguro che la lista unitaria venga vista come un’opportunità». Queste due affermazioni sono, rispettivamente, di Matteo Renzi e di Nicola Zingaretti e sembrano testimoniare una sintonia all’interno del Partito Democratico. Più che di sintonia, però, sarebbe più corretto parlare di tregua. Una tregua che – come pattuito dai maggiorenti dem – reggerà fino al giorno dopo le elezioni europee.
Quel che succederà dal 27 marzo è tutto ancora da scrivere. Ma se pubblicamente viene fatto sfoggio di unità, nelle retrovie si celano molto a stento malumori che potrebbero deflagrare in maniera inaspettata. Sul piatto, infatti, ci sono diverse variabili che rischiano di far ripiombare il Pd nel vortice delle divisioni interne. I prossimi passaggi sono delicati e, a seconda di come verranno gestiti, ci restituiranno un’immagine e una dimensione di partito differente.
In realtà, le elezioni saranno un banco di prova in sé. Zingaretti ha fatto sapere che si accontenterebbe di un 22-23 per cento (dando per scontato che sarebbe comunque un cinque per cento in più rispetto alle ultime politiche), mentre nel corso dell’ultima iniziativa elettorale, sul palco con Matteo Renzi, Carlo Calenda ha sentenziato che “il 20 per cento non può starci bene, neanche per iniziare la partita”. Approcci diversi, che lasciano già intendere come vi sia una fetta importante del Pd pronta a rinfacciare al segretario un risultato non soddisfacente. Specie se non dovesse avvenire l’agognato sorpasso nei confronti dei Cinque Stelle.
C’è una fetta importante del Pd pronta a rinfacciare al segretario un risultato non soddisfacente
È proprio il rinnovato asse tra Renzi e Calenda ad agitare i sonni di Zingaretti. I due – che in passato hanno avuto parecchie frizioni, ma che rappresentano la stessa anima liberale all’interno del Pd – hanno dato parecchia enfasi alla loro recente reunion, facendo capire che giocheranno la loro partita, insieme, nei prossimi mesi.
Una partita che il segretario Zingaretti, nel giorno stesso della sua elezione, ha tenuto a precisare che si sarebbe giocata sull’onda di due parole d’ordine: unità e, soprattutto, cambiamento. Il cambiamento annunciato però, proprio in virtù della tregua elettorale, non è ancora stato messo in pratica. Ma sarà il passaggio chiave per testare le possibilità di un futuro unitario per il Pd. Non è un caso, infatti, che la segreteria politica non sia stata ancora nominata e che se ne parlerà solo dopo le Europee. Anche da questo punto di vista, il risultato elettorale sarà dirimente per stabilire quale sarà il margine di manovra di Zingaretti. Più la sua linea avrà avuto successo, più avrà forza e libertà d’azione. Più invece il risultato si avvicinerà alla disfatta del 4 marzo dell’anno scorso, più le richieste di co-partecipazione nella gestione del partito saranno insistenti.
Tre cose, in questa campagna elettorale, non sono andate giù ai renziani, che hanno comunque fatto buon viso a cattivo gioco. La prima è stata la decisione di aprire le liste del Pd ai fuoriusciti di Mdp. Un affronto che, per chi ha vissuto come un dramma la sconfitta referendaria e come una beffa insopportabile i festeggiamenti di parte del partito (di cui l’iconica immagine del famoso brindisi al comitato del No Massimo D’Alema e Roberto Speranza), ha creato non pochi mal di pancia e indotto parte dei pasdaran della base renziana addirittura ad indirizzare le proprie preferenze elettorali verso Più Europa.
Non è piaciuta per nulla anche la partita relativa alla comunicazione. Dopo la defenestrazione degli uomini renziani che si sono occupati di questo aspetto anche durante la segreteria Martina – dal capo ufficio stampa Marco Agnoletti al responsabile social Alessio De Giorgi – c’era grande curiosità per vedere come sarebbe stata affrontata la questione da parte dei nuovi arrivati. Ebbene, la delusione è stata molto marcata. Si rimprovera a Zingaretti di non aver dato seguito agli annunci di voler impostare una campagna costruita sul noi invece che sull’ io e troppa timidezza (solo in parte mitigata negli ultimi giorni) nell’attaccare il governo in carica e rivendicare i risultati dei precedenti. In particolare ha fatto imbestialire il riferimento costante all’espressione Nuovo Pd, utilizzata in contrapposizione alle gestioni passate.
Infine è stata vissuta malissimo la gestione del caso Umbria e delle dimissioni della presidente Catiuscia Marini, contro le quali è stata proprio l’area renziana (capitanata da Anna Ascani) a giocare un forte ruolo di opposizione interna. La richiesta di fare un passo indietro, rivolta da Zingaretti alla Marini, è stata vissuta come un cedimento alla deriva giustizialista in salsa grillina, una cosa inaccettabile per i liberal del Pd.
La vera questione: quale atteggiamento dovrà avere il Pd nei confronti del Movimento 5 Stelle?
E qui si giunge a quella che è (e sarà) la vera questione, quella che più di tutte le altre potrebbe far saltare il banco. È una questione di cui si parla solo in termini ideologici, ma che nessuno affronta in termini pratici. Ma sarà l’evolversi della situazione politica a presentare il conto, prima o poi. È il grande ‘non detto’ di questa campagna elettorale in casa dem: quale atteggiamento dovrà avere il Pd nei confronti del Movimento 5 Stelle? Al momento Zingaretti non ne parla, o meglio si limita a dire che “se cade il governo si deve andare a votare e non esiste la possibilità di una maggioranza alternativa”.
In realtà tutti sanno che i numeri, sulla carta, ci sono. Trecentoquarantacinque deputati e centosessantatre senatori, per la precisione. Sono numeri segnati sui taccuini di tutti, da Zingaretti a Renzi, da Di Maio a Salvini, fino a Mattarella. Il tema sarà capire se e come questi numeri possano diventare qualcosa di concreto. Renzi e Calenda, in questo senso, sono stati categorici: “Mai con i 5 Stelle”. Ma il problema si porrà anche se, come chiede ora Zingaretti, si dovesse andare a elezioni anticipate. A meno che il Pd non otterrà un improbabile 42-43 per cento, dovrà fare i conti con il tema delle alleanze, volente o nolente.
Tre alternative: 1) assistere allo sfascio gialloverde 2) Governare con i Cinque Stelle 3) Cercare accordi a destra, da Più Europa a Forza Italia
Le alternative sono sostanzialmente tre, non necessariamente realizzabili. La prima è che, come successo un anno fa, il partito si tiri fuori, entri in versione pop-corn e assista allo sfacelo del governo giallo-verde. Un’eventualità difficilmente comprensibile, visto che se davvero si andrà ad elezioni anticipate sarà perché il governo avrà portato ad un default di fatto l’economia del Paese. La seconda è un accordo con i Cinque Stelle. La terza, che non è detto sia in grado di dare numeri sufficienti per governare, prevede di volgere lo sguardo a destra, sicuramente a Più Europa, ma anche oltre, provando a coinvolgere tutta i conservatori (anche in Forza Italia) che non sono disponibili ad abbracciare l’ultradestra salviniana.
Sono temi di cui si parla tanto in colloqui informali, davanti ai quali potrebbe riprendere corpo l’idea (già teorizzata tra gli altri da Goffredo Bettini) per cui si possa arrivare ad una sorta di separazione consensuale, alla nascita di due formazioni distinte ma non contrapposte, destinate poi a incontrarsi di nuovo. Un po’ come potrebbe succedere in Europa tra Pse e Alde. Con una formazione di natura prettamente laburista e socialdemocratica che possa rubare voti al Movimento 5 Stelle e una più centrista e liberale, sul modello Macron, che invece possa drenare voti a destra. È una prospettiva che da mesi viene considerata credibile in casa dem. Ma al tempo stesso, secondo molti, è un azzardo che potrebbe rivelarsi controproducente, che potrebbe addirittura portare alla dissoluzione del presidio democratico rappresentato oggi, pur tra mille difficoltà, dal Pd.