Consumo criticoMesa Noa, la sfida alla grande distribuzione arriva da una piccola coop sarda

Il progetto nasce a Cagliari con l'obiettivo di diffondere il modello di economia solidale e sostenibile nell'isola. Le produzioni locali sono al centro del progetto, che segue il modello del socio-consumatore e dove finalmente è il produttore a dettare i prezzi

Che rapporto c’è oggi tra un consumatore e un banco di frutta al supermercato? Si direbbe più attento, senza dubbio, all’etichetta rispetto ai magnifici anni ’90. O meglio, gli anni d’oro dei fast food e del consumo tout court spinto da martellanti campagne pubblicitarie delle grandi catene di distribuzione che non badavano troppo alla salute del consumatore, anzi. A farla da padrone erano merendine, snack, confezionati e dolciumi vari. In due parole: junk food, il “cibo spazzatura” con scarso valore nutritivo e alto contenuto calorico.

Oggi le merendine resistono, è vero, ma è sempre più diffusa una maggiore attenzione al prodotto, la sua origine di provenienza e, sopra ogni cosa, le modalità di produzione. Quelle uova sono allevate a terra? Quel salmone da dove arriva? I pomodori sono di serra? Il biologico è diventato pop, uno stile di vita vero e proprio che si è portato dietro tutta una serie di simboli e contenuti – chi non ha una shopper a casa? – che hanno rivoluzionato il rapporto tra consumatore e il banco di frutta di cui sopra.

È il “consumo critico”, la possibilità di scegliere, consapevolmente, cosa si sta mettendo sotto i denti. E non poteva andare diversamente, oggi che l’“onda verde” sembra aver trovato un posto di rilevanza anche a livello politico, in particolare tra le nuove generazioni che scelgono quotidianamente di essere sempre più green: si va dalla cosmetica al food, per arrivare alle auto, l’edilizia, il design e l’abbigliamento.

In questo contesto nasce in Sardegna l’emporio collaborativo Mesa Noa (in sardo “tavola nuova”, ndr), costituitosi formalmente il primo giorno di primavera del 2019, con l’obiettivo di estendere il modello eco solidale nel cagliaritano. Dopo l’esperienza di Camilla, primo esempio italiano di supermercato collaborativo inaugurato a Bologna nel dicembre 2018, si aggiunge un altro tassello al nuovo sistema che vuole spazzare via la distanza che il modello industriale ha introdotto per separare i consumatori da produttori e processi produttivi.

È il “consumo critico”, la possibilità di scegliere, consapevolmente, cosa si sta mettendo sotto i denti. E non poteva andare diversamente, oggi che l’“onda verde” sembra aver trovato un posto di rilevanza anche a livello politico

È la fine del 2017 quando il progetto inizia a prendere forma all’interno di Sardegna che Cambia, da un’idea del fondatore dell’associazione Terre Colte, Massimo Planta, due realtà molto attive nella creazione di reti di economia etica e solidale. Oggi Mesa Noa conta 80 soci, destinati a crescere nel breve periodo per raggiungere un nucleo minimo di personale di circa 300 iscritti. E il campo da gioco, quello isolano, ha tutte le carte in regola perché si raggiunga il risultato fissato: si tratta di un territorio in cui la produzione locale del “fatto a mano” – dall’artigianato al food – è ancora viva, ma necessita di un punto di riferimento che lo supporti nella sua battaglia contro la Grande distribuzione organizzata (Gdo), che toglie il fiato alle piccole e medie imprese in loco.

Per questo motivo i soci di Mesa Noa saranno allo stesso tempo proprietari, gestori e clienti dell’emporio, seguendo il modello del socio-consumatore, per cui chiunque voglia entrare a far parte del progetto deve versare una quota di associazione stabilita in 5 quote da 25 euro. Ma non basta: come vuole la tradizione degli empori collaborativi, se si vogliono acquistare i prodotti distribuiti da Mesa Noa è necessario che il socio presti tre ore di lavoro volontario gratuito al mese. «Questo meccanismo – spiega Tiziana Diana, tra i fondatori del progetto – consentirà di autogestire la stessa cooperativa, tenendo bassi i costi del personale, che risultano i maggiori in questo genere di attività».

Secondo, è il produttore a stabilire i prezzi. «Se il produttore fa un prezzo ci fidiamo del fatto che sia effettivamente quello che gli serve per poter sostenere il costo del suo lavoro. A ciò si aggiunge un ricarico di circa il 20% stabilito dalla cooperativa per coprire i costi vivi: affitto, utenze e altri costi per reggere la struttura», prosegue Diana.

Oltre alla cooperazione, alla base di ogni food coop che si rispetti, serve un codice etico senza il quale non sarebbe possibile un’attività di filiera priva di “intoppi burocratici”

Terzo. Oltre alla cooperazione, alla base di ogni food coop che si rispetti, serve un codice etico senza il quale non sarebbe possibile un’attività di filiera priva di “intoppi burocratici”. Così la cooperativa sarda ha previsto un accordo di garanzia partecipata tra la stessa e i produttori. Saranno i soci, allora, a selezionare direttamente le merci da sistemare sui banchi dell’emporio, ma non senza aver prima passato l’“eco-test”: le produzioni locali, una vasta gamma di beni che spaziano dall’ortofrutta all’igiene personale e per la casa, dovranno seguire il modello della sostenibilità ambientale. Niente prodotti realizzati con l’uso di sostanze chimiche et simili, per intendersi. Soltanto biologico, non necessariamente certificato. «Abbiamo diretta conoscenza di produttori che rispettano questi principi ma che non possiedono i documenti che lo attestino», conclude Diana.

Un progetto del tutto rivoluzionario a “casa nostra”, che si ispira al modello della cooperativa collaborativa dei primi anni ’70 nata a Brooklyn. È qui che si aprono le porte del supermercato collaborativo “The Park Slope Food Coop”, la prima rete organizzata che insegue la chimera dell’economia etica e solidale. Il progetto vede fin da subito grande partecipazione da parte dei newyorkesi tanto da arrivare a contare ad oggi 17 mila soci attivi. Una scelta lungimirante, quasi una visione, che aveva già previsto i danni ingenti che avrebbe generato un’economia votata al consumo e allo spreco sfrenato. L’idea piacque tanto anche ai nostri vicini di casa francesi, che prendendo ispirazione dalla Big Apple, danno vita nel 2010 a “La Louve“ di Parigi. Poi è la volta di “Bees Coop” a Bruxelles. E oggi, tocca all’Italia.

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