Verso le europeeUngheria, viaggio tra gli oppositori di Orbán: “È un gigante dai piedi d’argilla, può crollare in un istante”

Si contano sulle dita di una mano, eppure le associazioni, le organizzazioni e i collettivi di resistenza a Budapest per l'uguaglianza e i diritti e contro la speculazione immobiliare raccontano una società più viva e democratica che in qualsiasi altro paese. È lì che sta la vera Europa

Daniel MIHAILESCU / AFP

A Budapest per le europee quasi non si vedono manifesti elettorali, i pochi che ci sono in circolazione appartengono prevalentemente a Fidesz, il partito di Viktor Orbán. Di politica non si parla, il dibattito è inesistente. «A vedere le notizie in TV, sembra di stare in Corea del Nord», dice Philip, un americano che vive in Ungheria da diversi anni, parte del gruppo locale di Diem25 (gli è stato dato un nome di fantasia poiché ha chiesto di non apparire con il suo). Con il suo partito non riusciranno a presentarsi alle europee; l’opposizione in Ungheria è stata fatta a pezzi dal governo e delegittimata completamente, la sinistra divisa e impotente. La propaganda contro la tecnocrazia dell’Ue è fortissima, anche se i media occidentali commettono spesso l’errore additare Orbán come nemico dell’Unione. Senza i fondi Ue, l’Ungheria non sarebbe mai arrivata dove è ora: malgrado le condizioni negli ospedali siano disastrose e nelle campagne si viva in uno stato semi-feudale, dove l’istruzione di qualità è inesistente e i bambini sono malnutriti, mentre i giovani più colti continuano ad andarsene, i principali indicatori macroeconomici suggeriscono uno stato di benessere dell’economia.

Il libero pensiero, però, da queste parti non è altrettanto in salute. Se fino a una manciata di anni fa a Budapest la vita intellettuale succedeva nei caffè e nei luoghi pubblici (si veda alla voce “Parigi dell’Est”), ora la gentrificazione e il turismo di massa hanno portato alla chiusura o alla segregazione in periferia di molti di questi luoghi di ritrovo e centri di pensiero. Dietro la motivazione della “promozione della cultura ungherese”, nel giro di un decennio il centro di Budapest ha cambiato volto completamente, diventando di fatto un luna park per turisti. La speculazione immobiliare è alle stelle, tanto che nel centro ormai gli ungheresi non abitano più: «nel giro di un paio d’anni hanno aumentato gli affitti del 50%» racconta Sarah Gunther, un’artista e attivista parte di un collettivo chiamato Pneuma Szöv, letteralmente “collettivo dell’aria”. Gunther è di origini tedesche, ma vive a Budapest da ormai un decennio e ha assistito in prima persona alla metamorfosi del paese nelle mani di Orbán. Il collettivo organizza regolarmente performance teatrali e artistiche in strada e occupando edifici, riappropriandosi, seppure in forma temporanea, degli spazi sottratti alla comunità. Il nome del gruppo è dovuto alla loro prima esibizione, nel lontano 2008, sul tema dell’inquinamento (Budapest è la terza città più inquinata d’Europa), progetto che vedeva negli uffici di un centro commerciale abbandonato una mostra/percorso con una serie di attori impegnati a creare l’inquinamento in provetta e altre simili stramberie, per sensibilizzare i visitatori sul tema. L’edificio dove il collettivo ha avuto sede finora è al quarto piano di un raffinato e decadente palazzo in pieno centro, il quale fino a non molto tempo fa ospitava associazioni e altre no profit. Ora i corridoi sono pieni di scatoloni: il 60% delle organizzazioni ospiti non riesce a pagare la maggiorazione spropositata dell’affitto e nel giro di un mese dovrà spostarsi altrove.

Molti sono i centri di attivismo che stanno subendo la stessa sorte sotto la spinta dell’amministrazione locale, specchio e braccio del governo di Orbán. Non lontano dalla sede di Pneuma Szöv sorge Auróra, un’impresa sociale nata per “mettere in rete attività culturali, organizzazioni civili e attivisti, fare community building e creare divertimento in una comunità aperta”. Nell’edificio trovano spazio diverse Ong e gruppi di attivisti, tra cui diversi studenti della Central European University e di Szabad Egyetem, il movimento per l’”università libera”. Il centro sociale è vicino a George Soros. «Siamo stati messi sotto attacco dall’amministrazione locale e più in generale dal governo ungherese fin dalla nostra nascita nel 2014», racconta uno dei rappresentanti. «Tutto è iniziato con l’arresto di 20-25 persone con l’accusa di favoreggiamento dello spaccio. Ci hanno tenuto chiusi per un po’, poi siamo andati in tribunale e abbiamo vinto la causa, ma hanno continuato a tenerci sotto sorveglianza e ora hanno ottenuto di farci chiudere il bar alle 22 ogni sera. E questo è un problema, perché gli introiti del bar sono la nostra principale fonte di sostentamento e la chiusura anticipata ci ha messo in ginocchio finanziariamente. L’unica fortuna è che il proprietario dello stabile sia straniero; se fosse stato un ungherese sicuramente ci avrebbero già buttato fuori».

Malgrado TI non sia un’organizzazione politicamente schierata, è oggettivamente difficile credere alla buona fede di un premier il cui genero, appena trentenne, è diventato la seconda persona più ricca del paese dall’oggi al domani

Oltre agli attacchi politici, anche la pressione di un mercato immobiliare impazzito sta mettendo a dura prova le associazioni. Gólya, un altro spazio comunitario nato nel 2011 e fortemente orientato a sinistra, ne è l’esempio più lampante. L’edificio che la ospita è ormai circondato da nuovi palazzi. Sarà abbattuto presto, ma miracolosamente il collettivo è riuscito, grazie a donazioni, mutui contratti con privati e un crowdfunding, ad acquistare i 40mila e più metri quadrati di una vecchia fabbrica di motori in un quartiere periferico, la quale presto costituirà la nuova sede. A giudicare dallo stato degli interni, sembra impensabile che i 15 operai, più una serie di volontari, possano riuscire a mettere in piedi un progetto di dimensioni incredibili in pochissimo tempo. L’obiettivo è di aprire la prima parte dello stabile (che ospiterà, tra le altre cose, un asilo, degli uffici in condivisione per le Ong, una palestra, uno studio radiofonico e una sala di “riposo” con letti per senzatetto) in due settimane, mentre l’inaugurazione ufficiale è prevista per ottobre. «La nostra ambizione è di immaginare come sarebbe la società se le persone si autogovernassero e fossero totalmente indipendenti in termini finanziari», spiega Gergő Birtalan, uno dei 12 membri della cooperativa. «Diamo degli spazi alle associazioni e a chiunque condivida la nostra visione. L’unico criterio per lavorare qui è quello di fornire un servizio per la comunità».

L’idea di autosufficienza è il principio che muove anche Cargonomia, “un centro logistico che propone soluzioni per il trasporto sostenibile dei cibi, un punto di raccolta e distribuzione di frutta e verdura organiche prodotte a chilometro zero e uno spazio-incubatore per attività e idee legate al principio della decrescita e della sostenibilità ambientale”. In sostanza, l’organizzazione offre un servizio di trasporto in bici agli abitanti della città di prodotti organici provenienti da una fattoria vicino alla capitale. Ma organizza anche workshop sulla sostenibilità e la permacultura con le scuole, ricerca in collaborazione con l’università e programmi di lavoro per gli abitanti della campagna e minoranze come i rom. Tra gli obiettivi, Cargonomia si propone di riportare gli orti all’interno delle corti dei palazzi a ringhiera della città. «Fino agli anni ’80 Budapest era praticamente autosufficiente in termini di produzione di frutta e verdura, poi l’industria agricola ha cancellato tutto nel giro di dieci anni», spiega Vincent Liegey, un francese che si è trapiantato qui ormai 17 anni fa e che, oltre ad essere uno dei co-fondatori di Cargonomia, negli anni è stato attivista, co-fondatore del partito verde ungherese Lmp (“Another Politics Is Possible”) e consulente politico all’ambasciata francese di Budapest. «Con Cargonomia cerchiamo di riprodurre quella autonomia e di influenzare la politica mostrando che un’alternativa è possibile anche su piccola scala».

Come le associazioni che hanno sede sul territorio di Budapest, anche le Ong, le stesse che hanno subito la campagna di diffamazione contro le organizzazioni umanitarie e l’approvazione delle leggi “anti Soros” non hanno vita facile. «Noi non siamo stati particolarmente colpiti dalle leggi che hanno criminalizzato gli aiuti ai richiedenti asilo», spiega Miklós Ligeti, Head of legal affairs di Transparency International Hungary, l’Ong che a livello mondiale si occupa di lotta alla corruzione. «Ma il governo ci tiene comunque molto occupati tra concorrenza sleale, procedure anomale per gli appalti pubblici, e soprattutto l’arricchimento di coloro che sono amici del governo. Qui osserviamo soprattutto una particolare crescita del capitalismo clientelare, dove le amicizie e le conoscenze spesso scavalcano la prestazione economica e hanno un impatto notevole sulle tasche di pochi». Malgrado TI non sia un’organizzazione politicamente schierata, è oggettivamente difficile credere alla buona fede di un premier il cui genero, appena trentenne, è diventato la seconda persona più ricca del paese dall’oggi al domani. L’Ufficio Europeo Antifrode, ad esempio, non ha mai ricevuto indietro i 43 milioni di euro di cui la società del tale genero, Istvan Tiborcz, si è appropriata indebitamente attraverso appalti truccati cofinanziati dall’Ue tra il 2011 e il 2015. Ma i casi (anche riguardanti somme molto più ingenti) si fa fatica a contarli.

Anche le persone che sono a favore dell’Unione europea non sanno nulla di come le istituzioni europee funzionino. Nemmeno l’elite intellettuale più politicamente attiva. Quando ci fu il referendum per entrare nell’Ue, solo un quarto della popolazione andò a votare

Viktor Orbán sa giocare bene le sue carte, talmente bene da poter essere facilmente considerato «il bastardo più furbo di tutti in Europa», dice Liegey. Malgrado solo una minoranza nel paese lo sostenga davvero, «sa usare metodi molto efficaci per mantenere il potere e fingere di essere il più forte in Ungheria», eliminando uno ad uno chiunque possa rappresentare una minaccia per lui. Con i migranti, Orbán ha saputo creare un problema dove il problema non c’era, portando avanti la propria agenda politica. «Parla di cristianità come fondamento della società ungherese, ma le chiese sono vuote. La realtà del paese è molto diversa da quella che racconta. Quello di cui la gente si preoccupa davvero è il sistema sanitario, il sistema scolastico, l’emigrazione dei giovani. Ma nel paese non c’è dibattito», solo una narrazione mediatica completamente assoggettata al controllo del governo.

Tramite azioni mirate, come l’aumento dei salari del 15% un anno prima delle elezioni, o la concessione della cittadinanza ungherese ai cittadini di altri paesi (in Ucraina la compravendita di passaporti Schengen ha portato un discreto bottino nelle tasche di molti all’interno del governo, oltre a un cospicuo numero di elettori tra le fila del partito) Orbán è riuscito a mantenersi al potere. «L’ultima rielezione è stata spaventosa, abbiamo davvero iniziato a perdere la speranza di poterci liberare di lui», ammette Liegey. Complice la sostanziale disaffezione e sfiducia degli ungheresi verso la politica (solo un 15% crede davvero alle teorie complottiste della minaccia occidentale verso il paese, venerando Orbán come un guru) e il fatalismo che caratterizza la psiche collettiva, in un paese che è stato occupato da poteri stranieri per cinque secoli, Orbán è visto (anche all’interno del suo stesso partito) come il male minore e l’unica alternativa concreta fedele alla promessa del “mai più” del comunismo.

In questo contesto, alle elezioni europee per l’Ungheria è previsto un tasso di astensione del 50%. «Anche le persone che sono a favore dell’Unione europea non sanno nulla di come le istituzioni europee funzionino. Nemmeno l’elite intellettuale più politicamente attiva. Quando ci fu il referendum per entrare nell’Ue, solo un quarto della popolazione andò a votare, e anche allora c’era un’idea molto vaga di cosa l’Unione europea significasse davvero», spiega Liegey. «La classe dirigente ungherese aveva una visione romanzata dell’Europa e credeva sinceramente che bastasse implementare buoni investimenti strutturali; la crescita e la democrazia sarebbero derivate naturalmente. Ma il denaro dell’Unione europea ha avuto l’unico effetto di rafforzare la corruzione, le disuguaglianze e gli interessi delle corporazioni occidentali».

Non appena una massa critica di persone è in grado di organizzarsi, Orbán può crollare in un istante

«Noi ci sentiamo europei dell’Est, non abbiamo le stesse risorse e dobbiamo trovare il nostro modo di far funzionare le cose. Per me l’Europa è divisa in due. Se l’Unione europea vuole ancora essere una cornice per la democrazia, deve saper armonizzare», dice Birtalan. Il voto alle elezioni, da queste parti, non è visto come una reale soluzione: «Noi non abbiamo una tradizione antifascista di lunga data come altrove. È come scendere in piazza a manifestare, ormai sappiamo che così le cose non cambiano, per questo abbiamo deciso di abbandonare queste forme di attivismo piccolo-borghese. Dobbiamo cambiare la realtà a partire dalle fondamenta, organizzarci ed essere autonomi economicamente. Solo se avremo la base finanziaria e sociale alle spalle il movimento potrà raggiungere gli obiettivi politici che si è prefissato».

Chi l’avrebbe detto che proprio lì dove le isole di resistenza rimaste, quelle dove tutti si conoscono e si chiamano per nome, quelle che si contano sulle dita di una mano, pulsasse il cuore dell’Europa più vera. Un’Europa che la politica non la stabilisce a tavolino, ma la costruisce giorno per giorno, sporcandosi le mani raccogliendo pomodori in una fattoria o riportando alla vita un vecchio edificio dimenticato. Nonostante le minacce e le follie che la lotta per il potere perpetra. «La lealtà è uno dei valori fondanti della società ungherese. Orbán ha sfruttato molto questa caratteristica, promuovendo l’idea che chiunque muova un passo contrario alla linea di governo verrà neutralizzato istantaneamente. Ideologicamente è molto forte, ma questo lo rende anche molto instabile: non appena una massa critica di persone è in grado di organizzarsi, Orbán può crollare in un istante», dice Liegey. «Potrebbe succedere domani o tra vent’anni, nessuno lo sa». Solo perché manca una degna rappresentanza politica, non significa che tutto sia perduto. Gli italiani (e non solo loro) aprano le orecchie. Sul tetto della fabbrica, Birtalan parla sereno, il viso rivolto al sole. «Forse vinceremo noi, forse no». Di sotto, gli operai continuano il loro lavoro. «Ma può succedere, di cambiare. Se non ci credessi, non lo farei».

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Questo articolo è stato scritto in collaborazione con Transeuropa Caravans, un progetto di European Alternatives. In vista delle elezioni 2019 del Parlamento europeo, un gruppo di giovani attivisti è in viaggio attraverso quindici paesi europei a bordo di cinque carovane per raggiungere i luoghi di lotta e resistenza oltre i confini nazionali in difesa dei diritti fondamentali, incontrando direttamente i cittadini europei, raccogliendo le loro storie e mobilitandosi insieme per promuovere i loro diritti elettorali e la partecipazione in tutta Europa

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