BalcaniNel segno di Milosevic: ecco come ha trasformato il nazionalismo e ha incendiato l’ex Jugoslavia

Slobodan Milosevic, il padre-padrone dei serbi, dipinto come il “Macellaio dei Balcani”, è la figura che spiega molto di quella parte del mondo negli anni delle guerre. Un ponte tra passato e presente per ricordarci i pericoli del nazionalismo

OLIVER BUNIC / AFP

«Nella tragedia balcanica, Milosevic fu il continuatore e il dissolutore della Jugoslavia, l’artefice fallito della Grande Serbia e l’autocrate di una piccola Serbia stremata dalla corruzione e dall’embargo, il “costruttore di pace” alla conferenza di Dayton e il “macellaio” da eliminare in Kosovo, il mandante della pulizia etnica e il difensore di una multietnicità che – paradossalmente – resiste soltanto in una Serbia circondata da Stati etnicamente purificati.» Massimo Nava racconta, attraverso la biografia di Slobodan Milosevic, gli orrori di fine Novecento nel cuore dell’Europa: massacri, deportazioni, guerre di conquista, stupri di massa. La cronaca affonda le radici nella storia e si trasforma in una riflessione sui pericoli del nazionalismo, sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulla spregiudicatezza di grandi e piccole potenze che, in nome di strategie velleitarie, generano lutti e devastazioni.

Pubblichiamo un estratto de Milosevic. Balcani: la tragedia di un popolo (Ed. Bur-Rizzoli, Corriere della Sera)

Ci sono villaggi, alla frontiera con la Romania, diventati oasi di ristoro e speranza nel deserto della miseria serba. Tassisti, studenti, capifamiglia, disoccupati, li raggiungono in auto, con taniche di plastica nel baule. Fanno il pieno di benzina e gasolio, sotto occhi complici di doganieri. Cento litri, da rivendere al mercato nero, nelle strade di Belgrado, vicino a pompe di benzina spesso chiuse. Il viaggio «vale» cinquanta marchi al giorno, la sopravvivenza di intere famiglie. Stipendi e pensioni, pagati in ritardo, non raggiungono i cento marchi mensili. Così comincia il dopoguerra serbo, mentre i soldati della NATO si dispiegano nel Kosovo. Ma il verbo è sbagliato. Il dopoguerra serbo non comincia. Continua, da anni. Battaglie, profughi, sconfitte, inflazione, corruzione, sanzioni economiche hanno mandato alla deriva un Paese che, negli anni Ottanta, si avvicinava all’Europa e rappresentava un Eldorado di benessere e relative libertà agli occhi di bulgari, rumeni, ungheresi, separati dal Danubio e dalla Cortina di Ferro. Il contrabbando di benzina, alcolici e sigarette è diventato una risorsa nazionale: ingrassa grandi e piccoli traffici balcanici e aiuta la precaria sopravvivenza di massa.

La differenza, in questa continuità, è che le precedenti guerre – in Croazia e in Bosnia – si svolgevano all’esterno dei confini. Con il Kosovo, la guerra è arrivata in casa, sui cieli di Belgrado, nelle campagne serbe devastate dai bombardamenti. Differenza che ha ingigantito isolamento internazionale, agonia economica, annientamento della società civile, risentimento, sia verso l’Occidente che ha sganciato le bombe, sia verso l’uomo che ha trascinato il Paese ancora una volta in guerra. Una sera di marzo, a Belgrado, nel palazzo della presidenza jugoslava – il «Castello bianco» dove soggiornava il maresciallo Tito – il diplomatico americano Richard Holbrooke stringeva per l’ultima volta la mano di Slobodan Milosevic, salutandolo con queste parole: «Lei è consapevole, presidente, di che cosa succederà quando uscirò da questa stanza?». «Comincerete a bombardarci» rispose Milosevic, contemporaneamente rassegnato e irremovibile al precipitare degli eventi. «Era calmo, direi fatalista, fermo. Parlava a lungo, con emozione, della storia serba. Lasciammo Belgrado assolutamente certi, al cento per cento, che Milosevic non avesse il dubbio di un bluff» ricorda Holbrooke. «Sarei sorpreso se ci rivedessimo un’altra volta» furono le ultime parole di Milosevic.

C’è un filo sottile fra la quotidiana miseria dei piccoli contrabbandi e la tragica solennità di quella fredda stretta di mano, davanti a una porta che si chiudeva, come una pietra tombale, sul destino di un popolo e di un uomo che, di questo destino, è stato artefice. Perché vita, identità, sofferenze, scelte e comportamenti di questo popolo sono stati pesantemente condizionati dal potere e dalle decisioni dell’uomo che l’ha guidato e rappresentato. Considerazione consolatoria o assolutoria – per i serbi e per chi li osserva dall’esterno – se si riconoscono in questo potere i tratti caratteristici di una dittatura: controllo della stampa, fedeltà delle forze armate e della polizia, occupazione e delegittimazione delle istituzioni, fedeltà dell’apparato burocratico ed economico. Considerazione più inquietante se, nell’ascesa e nel dominio di Milosevic, si scorgono anche il consenso popolare, il sostegno della cultura e della tradizione del Paese, la difesa collettiva di diritti nazionali che, a torto o a ragione, si ritenevano minacciati. Il «Grande Manipolatore» – come è stato definito – è anche uno che ha trovato materiale da manipolare e altamente infiammabile.

L’uomo che è stato paragonato a un nuovo Hitler – proprio come Hitler nella storia della Germania postbellica – ha fatto infine rivoltare la coscienza del popolo che lo ha portato al potere, affidandogli la missione del proprio riscatto. Per anni, Milosevic ha tramutato in sogni di riscossa e prosperità le frustrazioni dei serbi, i torti subiti e secoli di sconfitte, deportazioni, colonizzazioni. E, dopo un decennio di lutti, i serbi hanno presentato il conto delle promesse tradite. Ma per anni hanno rinnovato il consenso, in parte sono stati deprivati delle possibilità di ricambio politico, quasi tutti sono stati raggirati da una comunità internazionale che, fino all’intervento militare in Kosovo, ha condannato Milosevic soltanto a parole, legittimandone, dopo le guerre in Croazia e Bosnia, il ruolo di garante degli accordi e di una precaria stabilità balcanica. C’è anche una sproporzione, in apparenza incomprensibile, fra il gigantismo dell’attacco militare e diplomatico lanciato dalle potenze occidentali contro il regime di Milosevic e la realtà di un piccolo Paese ridotto in miseria, che giganteggia soltanto nell’immagine terribile e cupa che il circuito occidentale dell’informazione ha costruito attorno alla figura del suo leader.

Slobodan Milosevic, il padre-padrone dei serbi, dipinto come il «Macellaio dei Balcani», la miccia guerrafondaia e nazionalista che ha incendiato e distrutto la ex Jugoslavia, l’incarnazione del male, il riferimento teorico degli orrori di fine secolo nel cuore dell’Europa: pulizia etnica, deportazioni di popoli per ridisegnare confini, guerre di conquista territoriale, stupri di massa. I media internazionali hanno trascurato molte altre cause e responsabilità della tragedia, innanzi tutto la tolleranza e persino il sostegno dell’Occidente a piccoli e grandi personaggi del calibro di Milosevic. Milosevic e la Serbia, Milosevic e il mondo. Un uomo che ha sempre aspirato all’eredità del Padre della Jugoslavia, a essere almeno il «Piccolo Tito», sul trono di una «Piccola Jugoslavia», per quanto in rovina e smembrata, era forse orgoglioso di questa grandiosa e perversa notorietà, costruita a piccoli passi, dalle segrete stanze della burocrazia comunista fino al palcoscenico della diplomazia internazionale.

Le cronache di questi anni hanno già emesso una condanna morale, distinguendo raramente fra il serbo Milosevic e i serbi, e finendo spesso per criminalizzare un popolo e un Paese. Le ultime vicende tragiche dei Balcani concorrono alla sua esecuzione politica. Ma il posto nella Storia è ancora da scrivere, seguendo i fili che uniscono la biografia personale al popolo e che collegano la tragedia della Serbia alla scena internazionale. Forse Milosevic poteva nascere soltanto in Serbia, ma forse il destino suo e del Paese sarebbero stati diversi, probabilmente meno distruttivi, se diversi fossero state le strategie geopolitiche e gli atteggiamenti morali della comunità internazionale, in un’area – quella balcanica – in cui la Serbia ha sempre avuto, suo malgrado, una scomoda posizione, quella di essere il più grande, e quindi il più pericoloso per i vicini, fra i piccoli Paesi della ex Jugoslavia.

Per anni, ho provato a riannodare questi fili, come testimone delle guerre e cronista dietro le quinte del potere a Belgrado. Ho incontrato molti dei protagonisti. Nella memoria, sono rimasti pochi sprazzi di luce e moltissime ombre. Ombre «balcaniche», dentro logiche di ambiguità, trasversali a strategie e obiettivi, rovesciate rispetto alle normali categorie della politica e della diplomazia, impigliate in una ragnatela di piccole, e spesso miserevoli, vicende umane e grandi strategie planetarie. Milosevic è al centro di questa ragnatela, ma è un ragno che non l’ha tessuta da solo: cuore del problema e parte della soluzione, pedina e alfiere di una scacchiera minata, dove si sono giocate e si giocano tante partite, nessuna delle quali è vicina alla conclusione. La tragedia della Jugoslavia non è cominciata con Milosevic e non è destinata a concludersi con la fine del suo regno. Milosevic ne è stato il motore, il massimo interprete negativo, su un palcoscenico di attori e comprimari che hanno gareggiato con lui, subendone l’influenza, diventandone complici, utilizzandone gli errori, dividendone le responsabilità: una grande tragedia shakespeariana, nella quale intrighi di corte, monarchi spietati, capi assetati di potere e donne intente a tramare nell’ombra, affaristi e cortigiani, trascinano interi popoli nel bagno di sangue. Questo non sminuisce il ruolo negativo di Milosevic, ma evita di farne il capro espiatorio, il comodo alibi dietro il quale nascondere le colpe di quanti contribuirono alla morte di una nazione – la ex Jugoslavia – e di quanti, dentro e fuori la Jugoslavia, pensarono di trarre vantaggi da quel funerale.

Belgrado, 1999

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