Finalmente lo dice anche l’Istat, l’Italia è ad un punto di svolta, una svolta verde. Una svolta anche economica che ci vede al 17% di consumi energetici coperti da fonti rinnovabili, con un valore aggiunto delle cosiddette ecoindustrie di 36 miliardi, pari al 2,3% del Pil, un calo del 50% nel consumo delle materie prime ed un settore, quello dell’efficienza energetica in edilizia, che ha sviluppato investimenti per 293 miliardi di euro in 10 anni generando due milioni di posti di lavoro. Nonostante tutto però! Questo bisognerebbe dire. Sì perché in Italia investire e lavorare nella cosiddetta Green economy è ancora maledettamente difficile visto il quadro normativo instabile o assente e la totale mancanza di una visione e di un piano generale industriale che sappia guidare ed accompagnare questa rivoluzione verde. Eppure nessun Paese europeo come l’Italia avrebbe da guadagnare se davvero si gettassero le basi di un serio, credibile ed efficace Green New Deal: secondo la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile in Italia è possibile dare un forte impulso ad uno sviluppo sostenibile e a un aumento importante dell’occupazione – che potrebbe raggiungere 800.000 addetti in sei anni – affrontando con misure adeguate alcune grandi problematiche ambientali. Tra queste la crisi climatica, con la riduzione dei consumi di energia nelle case, nelle scuole e negli uffici e con un forte aumento delle energie rinnovabili; i forti impatti generati dallo spreco di risorse e dallo smaltimento dei rifiuti accelerando il cambiamento verso l’economia circolare; il miglioramento delle città con un programma rigenerazione urbana; un percorso per una mobilità sostenibile. Si calcola che realizzando le misure per raggiungere questi 5 obiettivi green si attiverebbero circa 190 miliardi di investimenti con oltre 682 miliardi di aumento della produzione e 242 miliardi di valore aggiunto, creando circa 800.000 nuovi posti di lavoro al 2025.
Per raggiungere questi 5 obiettivi green si attiverebbero circa 190 miliardi di investimenti con oltre 682 miliardi di aumento della produzione e 242 miliardi di valore aggiunto, creando circa 800.000 nuovi posti di lavoro
Sulla base delle indagini realizzate da Unioncamere e Fondazione Symbola poi, in Italia c’è stata una domanda di green jobs pari a quasi 474.000 contratti attivati, il 10,4% del totale delle figure professionali richieste per il 2018. Si tratta di ingegneri energetici, agricoltori biologici, esperti di acquisti verdi, tecnici meccatronici, installatori di impianti termici a basso impatto. Nel manifatturiero si sfiora il 15%. Fin qui quello che abbiamo raggiunto e il Paese che potremmo essere. Ma allora cosa c’è che non funziona? Il problema è che la classe dirigente italiana – nelle sue componenti politica, imprenditoriale, industriale e dell’informazione, non ci crede. Non ci crede affatto. Siamo ancora il Paese dell’emergenza rifiuti e degli impianti che vanno a fuoco esponendo i cittadini alla diossina, siamo anche il Paese delle bonifiche mancate con territori ancora totalmente inquinati dalla vecchia industrializzazione e dalle infiltrazioni della criminalità che sulla mancanza di trasparenza e di controlli ha saputo lucrare egregiamente intuendo il business possibile ad esempio nell’interramento illegale dei rifiuti tossici. Un Paese che non conosce se stesso e che non a caso non ha ancora sviluppato una forte rappresentanza politica su questi temi. Voglio dire poche semplici cose: in queste settimane siamo stati riempiti di analisi sul perchè l’onda verde europea si è fermata in Italia al 2,3%. La verità è che non esiste un talk show televisivo o un grande giornale disponibile ad offrire la prima serata o la prima pagina a questi temi e alle persone che potrebbero parlarne. L’ambiente non è “notiziabile” come si dice in gergo, entra nel dibattito politico solo per registrare chi è schierato per il si o per il no alla TAV senza avere la capacità di dire che non esiste alcun buco in una montagna (tanto più pronto solo nel 2035) che può sostituirsi ad un serio e certo piano nazionale della logistica dei trasporti che dia senso anche a quell’opera magari.
La questione ambientale andava tolta dalle mani esclusive degli ecologisti
La questione ambientale si scontra e viene sconfitta da tutti gli automatismi della politica e della comunicazione: non si presta, per dire, alla semplificazione perchè ha bisogno di competenze trasversali ed invece davvero ci sarebbe bisogno che gli industriali e gli economisti si sedessero con gli esponenti della green economy per il bene dell’Italia. Facciamo un esempio? Personalmente mi batto da sempre contro l’utilizzo della plastica e ho salutato con grande favore l’avvento della direttiva europea sulla plastica monouso. Dobbiamo essere consapevoli della potenza dell’industria italiana delle bioplastiche che nel quinquennio ha registrato un aumento sia del fatturato, con il 49% in più, pari a 545 milioni di euro, che della produzione, aumentata dell’86%. La forza lavoro poi è arrivata a 2450 addetti con un aumento del 92%. Il brevetto del polimero che ha sconfitto la plastica è firmato dall’italiana Catia Bastioli e testimonia che il nostro Paese può essere all’avanguardia anche sul fronte della ricerca. Eppure c’è il rovescio della medaglia: il 70% della plastica monouso che la UE ha deciso di mettere al bando è prodotta in Italia. C’è qualcuno che si sta occupando di accompagnare la riconversione di questo pezzo di industria o, come sembra, si procede in ordine sparso con i comuni che fanno delibere per mettere al bando la plastica, un Governo che non riesce a legiferare in materia ed una contrapposizione quasi ideologica tra vecchia e nuova industria? Tutto qui. L’Italia cambia e svolta verso il green per ostinazione, genialità ed intuizione di alcuni facilitati dal fatto che in questi anni i movimenti ambientalisti italiani hanno rinunciato ad una rappresentanza politica univoca ma hanno lavorato moltissimo per rendere la riconversione ecologica socialmente desiderabile, orientando i consumi e rendendo i cittadini italiani un pò meno consumatori passivi ed un pò più desiderosi di spendere il loro denaro in cibo sano, edilizia sostenibile, riqualificazione energetica, prodotti sostenibili, sostituendo ad esempio il possesso individuale dell’automobile con il car sharing e la bicicletta. Nonostante tutto dicevo. Nonostante il fatto che le nostre città sono prive quasi totalmente delle infrastrutture necessarie come le colonnine di ricarica elettriche o di piste ciclabili sicure. Nonostante il fatto che la miopia dell’industria automobilistica nostrana ci abbia fatto perdere il treno della produzione di auto elettriche le cui componenti però parlano italiano.
Con una battuta, negli anni passati, mi è capitato di dire che la questione ambientale andava tolta dalle mani esclusive degli ecologisti: si perchè solo se questi temi entreranno nell’agenda e nella cultura di mondi diversi si potrà accelerare il percorso virtuoso ma lento già imboccato dal nostro Paese. Come dire: non possiamo aspettare di avere un Presidente del Consiglio ecologista per iniziare a correre. Ci serve un riconoscimento trasversale della centralità di questi temi, starà poi al valore dei progetti politici messi in campo assumerne la rappresentanza. Sì perchè il Green New Deal è quanto di più radicale si possa immaginare per cambiare la società e l’economia italiana: basti pensare che la green economy pone necessariamente i cittadini a monte del processo produttivo, con l’installazione dei pannelli sui propri tetti ad esempio o affidando loro il recupero dei materiali tramite la raccolta differenziata: solo dopo aver contribuito ad innescare il processo la green society si fa consumatrice a valle di nuovi prodotti e soprattutto portatrice di nuovi stili di vita. Una vera e propria rivoluzione circolare dei ruoli e dei processi che necessita di una classe dirigente all’altezza della sfida, fuori e dentro le istituzioni. Ognuno deve fare la sua parte, se vogliamo iniziare davvero a correre!