Bastone e carota“La saga dei Florio” è come Beautiful. Se amate le storie di famiglia, leggete “Nel nome”

Al posto di Giuseppina potrebbe esserci la fatale Brooke, i fratelli potrebbero chiamarsi Ridge e Thorne: non cambierebbe nulla. Il libro di Stefania Auci è una saga per nostalgici della soap. Quello di Alessandro Zaccuri, invece, affronta il tema della morte della madre come una cerca del Graal

Foto tratta dal profilo Facebook di Stefania Auci

Il bastone. La fonte principale, in questo caso, è Beautiful. La soap. Solo che al posto della famiglia Forrester c’è “la saga dei Florio”. Piccinerie. Lo schema narrativo è sostanzialmente lo stesso: ascesa e peripezia di un casato, con fitti amorazzi nel mezzo. Esempio cardine. Il rude Paolo Florio schiatta, allora scatta il fratello, Ignazio, a predare la moglie di lui, Giuseppina. Scena da film di serie C: “Di colpo, si ritrova stretta in un abbraccio che le fa male. La camicia da notte si apre, le scopre il seno. Ignazio la stringe, spalle contro petto. Sta tremando. Si guardano nello specchio. Giuseppina vede un estraneo e ne ha paura. Perché l’uomo che l’ha afferrata in quel modo non può essere il mite, paziente Ignazio. Quello è un uomo disperato, un individuo pronto a tutto”.

Al posto di Giuseppina potrebbe esserci la fatale Brooke, i fratelli potrebbero chiamarsi Ridge e Thorne, cosa cambierebbe? Per altro, quella scena potrebbe essere ambientata oggi come nel Seicento, in Sicilia come a Los Angeles, non c’è alcun riferimento storico che non sia da magazzino di Cinecittà. Stefania Auci, però, fa qualcosa di più. Oltre alla cornice narrativa, delle soap anni Ottanta riproduce il linguaggio, con le stesse cretinerie formali. Intendo: usa una lingua vintage, che volgarizza il romanzo ottocentesco mescolandolo al rotocalco rosa. Un mix tra vicenda vittoriana e Novella 2000, ecco. L’utilizzo del cliché, cioè della ‘matrice’, ribadito all’infinito, in questo caso, è fondamentale.

Tutto il romanzo è costituito da capitoli che cominciano con una scena descrittiva, spesso idilliaca, in cui si sintetizza la quinta storico-geografica (altrimenti impalpabile: questo non è un romanzo ‘storico’, ma una soap, appunto), per poi far calare i pupazzi-personaggi. Esempi. “Il mare è vischioso, ha il colore dell’inchiostro, si confonde con la notte. Ignazio salta già dal carretto non appena arrivano al porto”. Vedete? A paesaggio, trattato con tocchi didascalici, succede personaggio. “La tramontana spazza la strada in riva al mare. Davanti alla costa di Marsala, le Egadi sono grumi di ferro contro il cielo… Sotto gli occhi di Vincenzo…”. E ancora: “Strida di gabbiani, fruscio di vento, colore di sole. Al fermarsi della carrozza, Vincenzo…”.

Il cliché reiterato è un destro in faccia ricevuto da Orfeo, fa ciondolare dalla noia il lettore ‘forte’, ma crea fiducia, probabilmente, nel lettore comune. In effetti, una signora non proprio avvezza a Thomas Mann, vedendomi con in mano I leoni di Sicilia fa, “lo legge anche lei?, bello vero?, spero ne facciano presto una fiction”. Appunto. A premiare non è soltanto ‘l’effetto Ferrante’ – scrivi una saga, senza stramberie narrative, ambientala nel Sud Italia, il successo è certo – ma quello che vogliono davvero, intimamente, i lettori italiani, nostalgici dell’epoca aurea di Beautiful. La storia di una famiglia che viene dal nulla e ha un successo esagerato, i soldi, l’aura del potere, il culto della virilità e della scaltrezza maschia, la sottomissione della donna al gran capo (esemplificata da Giulia, la dama di Vincenzo, prima tenuta come amante, come bestia da monta, fiera di accettare le angherie del boss, con scene da capogiro patetico: “‘Perderò l’onore. Chi mi vorrà dopo?’. ‘Nessuno’. Vincenzo le sfila via il mantello. ‘Nessuno ti vorrà. Sei mia’. Glielo dice all’orecchio, e già sta slacciando i bottoni dell’abito. Poi apre il corsetto, le sfila le gonne. Cadono a terra e fanno l’amore”). Una storia edificante, insomma, edificata con scarso investimento letterario e neanche una invenzione narrativa, peccato.

Stefania Auci, I leoni di Sicilia. La saga dei Florio, pp.438, euro 18,00

Il modo in cui lo scrittore, laterale al fiume del vivere, pone gli occhi sulla vita, è deciso: delle cose non si nega il male, ma se ne scorge, con equivalente lucidità, il punto della resurrezione

La carota. La morte della madre, “il 28 febbraio dell’83”, è l’avvio del romanzo più intimo di Alessandro Zaccuri – già autore di un libro lampeggiante e fortunato, per Mondadori, Il signor figlio. Non è una saga, al contrario, ha l’apparenza di un libro ‘da camera’, Nel nome, eppure il carisma è quello della cerca del Graal, della sfida alla morte, un far fiorire zattere sui fiordi dell’irragionevole.

L’affronto con ciò che toglie ogni parola si consolida in una ossessione, quella verso il nome di Maria, “il secondo nome di mia madre”, che l’autore cerca, con custodito affanno, nei bagliori del mondo, nei volti, che accadono come fiamme (“Sono le Marie in incognito, travisate perfino a se stesse per scrupolo di pudore o smania di altezzosità, ad appassionarmi di più. Le cerco in continuazione, nei dipinti come nelle pagine del Vangelo, nelle donne che incontro e in quelle che gli scrittori hanno immaginato prima di me”).

Il dolore, così, si sfalda – o si radica con una profondità più labirintica – nelle letture ferme, meridiane di alcuni passi dei Vangeli – dove si passano in rassegna le tante, enigmatiche Marie – convocando al patire Paul Celan e Joseph Conrad, Henry James e Herman Melville, con trafitture estetiche che convincono per connaturato pudore (questa, ad esempio: “Ogni narratore, anche il più loquace, conserva sempre qualcosa per sé e per sé soltanto”).

Il modo in cui lo scrittore, laterale al fiume del vivere, pone gli occhi sulla vita, è deciso: delle cose non si nega il male – che a volte ha tratti demoniaci: “La vocina accomodante… aveva evocato una creatura di tutt’altra sostanza, una dama elfica asessuata e remota. Il mio nome è Legione, siamo in molti qui dentro” – ma se ne scorge, con equivalente lucidità, il punto della resurrezione. Un nome si mastica, su un nome si fonda una città, di un nome va esaudito il destino e la costellazione verbale. Per un tema così grande – cosa c’è di più vasto del magistero di una madre e di quello della morte? – Zaccuri sceglie una lingua che va mendicando, discreta. Questo libro è come un inginocchiatoio: ciascuno è libero di porgere, lì, su quella mascella di legno, le proprie richieste.

Alessandro Zaccuri, Nel nome, NN Editore, pp.164, euro 14,00

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