Nel Quinto evangelio (1975), romanzo di inesauribile bellezza, indifeso, bianco, Mario Pomilio tocca il cuore del problema. I Vangeli sono inarginabili, sono tutto e niente, sostanza verbale diafana, che sfugge, e noi, siamo perpetuamente alla cerca del Graal di un “evangelo andato perduto”, che contenga la “promessa d’un supplemento di rivelazione”. I Vangeli, in effetti, non coltivano un ordine etico, gettano nell’abisso; non calmano, fanno allucinati; la storia del Crocefisso ci illividisce, ci lascia senza nulla, senz’altro da fare che lasciare tutto e abitare la Croce – oppure, gettare il Vangelo ai rovi. Dei Vangeli non si può ‘discutere’, armando la filologia e il buon senso, nei Vangeli occorre precipitare. Tutto il cristianesimo, d’altronde, è lì, tra ostia e stimmate, tra dolore e morso, tra cadere e mangiare.
Pomilio scrive pochi decenni dopo Nag Hammadi e la scoperta dei Vangeli ‘gnostici’ e dell’abbacinante Vangelo attribuito a Tommaso. Ma neanche gli gnostici, tanto meno gli apocrifi, ci sfamano – la storia del Nazareno impone il dubbio, getta nel nulla (la morte di Dio), redime, ma non rassicura, salva per ustione, senza soddisfazione ‘genetica’ (non siamo Israele, popolo eletto) né intellettuale (la fioritura ‘pagana’). Cristo desertifica, porta il leone e la spada, la divisione e una nuova nascita nel fuoco. Così, non bisogna attendersi il verbo svergognato, risolutivo leggendo il potente lavoro da Caludio Gianotto e Andrea Nicolotti e detto Il Vangelo di Marcione (Einaudi, 2019), perché ne saremmo delusi. Qui non c’è alcuna rivelazione – l’azzardo dei curatori, piuttosto, è quello di costruire un Vangelo per ipotesi, che non c’è – ma c’è un uomo.
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Marcione, il costruttore di eresie, lo conosciamo leggendo i suoi avversari, Tertulliano, soprattutto, l’autore del furibondo Adversus Marcionem – e da questo lavoro di costante battaglia ne riconosciamo la pericolosità per la Chiesa delle origini. Viene da Sinope, Marcione, sul Mar Nero, “di professione faceva l’armatore, dedicandosi verosimilmente al commercio marittimo con una o più imbarcazioni. Giuse a Roma sotto l’imperatore Antonino Pio (138-61), e prese contatti con la comunità cristiana della città”. Che il padre di Marcione fosse vescovo e abbia scomunicato il figlio è leggenda propria a profanare l’autobiografia dell’eretico (“Il padre di Marcione era il vescovo della città; Epifanio racconta anzi che il padre fu costretto a scomunicare il giovane figlio perché reo d’avere sedotto una fanciulla. Checché sia di ciò, è certo che Marcione dovette abbandonare per tempo la città natale: commerciante e armatore di navi, accumulò un’ingente fortuna”, scrive Mario Niccoli nella voce del 1934 dell’Enciclopedia Italiana). Nella comunità romana – finanziata dal nuovo arrivato con una somma di circa duecentomila sesterzi – le idee di Marcione si scontrano con quelle dei capi, e nel 144 l’eresiarca abbandona l’Urbe, fa da sé, costellando il mondo appena cristianizzato di chiese altre, alternative, che dureranno, pur in difficoltà, per secoli.