Per me è un esempio di dedizione, di ascetismo nella cruna dei propri regni immaginari. Gianluca Barbera, dico, ti abbraccia con la foga di un orso polare, è corrosivo come Diogene e fragoroso come Falstaff, inafferrabile come l’Orson Welles di F for Fake. Di per sé, è un ‘personaggio’ egli stesso e un giorno, a sua insaputa, scriverò il romanzo che lo dipinga degnamente – ci vorrebbe l’acido di Swift e la torbida pietà di Dickens – dando sfogo a tutti gli aneddoti che mi ha raccontato e a tutte le grottesche audacie che gli ho visto compiere. Piuttosto, ho avuto una certa fortuna: ho visto la nascita e la crescita di uno scrittore ovidiano e monolitico. Voglio dire: da La truffa come una delle belle arti (2016) a Marco Polo (Castelvecchi, 2019) è come se uno avesse fatto il salto triplo tra equatore e Polo Sud.
In tre anni Barbera ha realizzato quello che uno scrittore compie in trenta. Ha trovato una trama, ha studiato una strategia narrativa, ha esplorato un linguaggio, nell’Amazzonia verbale, trovando il proprio stile, il proprio canto. Ha trovato il solido platonico della ‘felicità’ narrativa, e non è poco, attraverso una disciplina totale (ergo: fatica, fatica, fatica). Di Marco Polo, per dire, avrò letto almeno tre versioni: in alcune era il ‘meraviglioso’ a zittire tutto il resto, in altre era la perizia nell’istoriare i dialoghi, magmatici, in altre ancora era il bastimento delle attese, delle scorciatoie enigmatiche, dello stupore bimbo a prevalere. Intendo: Barbera ha giocato con pesi, zavorre, bilance, s’è messo in sintonia con la propria stella, l’ha accudita, l’ha accettata e l’ha seguita. Senza gravità da bolide intellettualoide (lui, per altro, che in filosofia, mentre sbrana una ‘chianina’, ti spacca il sillogismo in quattro, ti vince con rapinosa astuzia retorica).
Di questo libro apparentemente senza tempo – ma l’epigrafe di Michel Foucault funge da passepartout esegetico – narrato all’ombra di una yurta, secoli fa, a cavallo di una carovana veneziana nel Rinascimento, tra le truppe di Garibaldi e le retrovie di Napoleone o alla foce del Big Ben, in un Ottocento velato da fumi londinesi simili a una sindone, amo i momenti in cui tutto si fa intangibile, inavvertito, narrazione affidata allo specchio, arazzo da cui crolla l’ordito capitale, assembramento di castelli su un lago, che svaniscono appena appare il luccio dalla bocca infinita.