Il caso di Noa Pothoven ha colpito l’opinione pubblica in modo sorprendente, tanto che è superfluo ricapitolarne gli eventi. Eutanasia legale o meno, ciò che sembra aver infervorato maggiormente gli animi è stata l’impressione che questa tragedia “si sarebbe potuta evitare”. E via dunque a un’ondata di consigli e biasimi: nei confronti della famiglia, della “civile Olanda”, dei medici e della società tutta. Un’ondata di empatia e senso di responsabilità sociale o ennesima sottostima dei problemi di salute mentale?
In Italia la depressione è ancora troppo spesso equiparata alla tristezza, allo spleen adolescenziale o, peggio ancora, al lassismo di chi non ha voglia di darsi una mossa ed essere produttivo per la società. Nella banalità quotidiana, si parla di depressione per riferirsi a una semplice reazione ansiosa, a un periodo di crisi o a una delusione cocente. Ma la verità è che può trattarsi di una patologia grave, anzi, gravissima: invalidante e disperata.
Allo stesso modo l’anoressia – di cui anche Noa soffriva – è spesso liquidata come l’ossessione della magrezza, sottovalutando le ragioni più profonde di questo disturbo, che se proprio devono essere ricondotte a un movente principale, non è certo la ricerca di bellezza, quanto la necessità di avere una forma di controllo, in primis sul proprio corpo.
Chiariamo alcuni aspetti: è vero, la depressione è una malattia curabile. Indipendentemente da quale sia la tipologia, si tratta di un disturbo multifattoriale che richiede diverse strategie per essere superato: farmacologica, psicoterapeutica e di sostegno sociale. Questi fattori, combinati tra loro, possono dare diversi esiti. Anche chi ha la fortuna di accedere a cure adeguate sa che non è mai facile azzeccare la giusta terapia, terapia che va costantemente monitorata, modificata e – nel migliore dei casi – interrotta. Alcune volte si guarisce completamente, altre volte – molte – il disturbo resta sotto controllo, più o meno latente, in agguato per tutta la vita. Ma è possibile conviverci.
Secondo alcuni pareri “social”, la società ha lasciato morire una ragazzina. Ma questo succede continuamente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato il suicidio come la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani
È vero anche che la depressione, tra i suoi fattori eziologici, ha delle cause di tipo sociale: è influenzata dallo stato socio-economico, dall’ambiente, dal sesso e dall’età (qui se n’è parlato diffusamente). Detto ciò, per parafrasare Tolstoj, ogni persona depressa è depressa a modo suo. E non solo perché ognuno ha la propria personalità e il proprio vissuto, ma anche perché i nostri corpi e la nostra biologia funzionano tutti diversamente.
I farmaci, per esempio, non funzionano per tutti. Non hanno funzionato per Laura, che nel 2015, a 24 anni, è andata in Belgio – dove l’eutanasia è legale anche per motivi di salute mentale –, ha salutato amici e parenti e ha scelto di morire. Il Belgio autorizza questo tipo di richiesta in caso di “malattie incurabili e gravi” che causano “sofferenza fisica e/o psichica costante, insopportabile e implacabile”. E per i tre medici che hanno avuto il compito di esaminare il caso, Laura rientrava perfettamente in questi criteri.
Non hanno funzionato nemmeno per un’insegnante siciliana di 47 anni, morta quest’anno a Forch, vicino a Zurigo, in una clinica che pratica l’eutanasia. Nemmeno lei era una malata terminale: solo non riusciva più a tollerare il mal di vivere che la affliggeva. Sia in Svizzera che in Belgio la depressione è motivo per il suicidio assistito nel 3% dei casi. Perché i casi di depressioni croniche, resistenti ai farmaci – e addirittura alla controversa terapia elettroconvulsivante (elettroshock), praticata ancora come extrema ratio sui soggetti farmaco resistenti – sono diversi e documentati.
Secondo alcuni pareri “social”, la società ha lasciato morire una ragazzina. Ma questo succede continuamente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha indicato il suicidio come la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani. E per quanto gli adulti commuovano meno, anche i dati che riguardano loro non sono incoraggianti. La chiamata all’indignazione, in questo caso, non è tanto legata al gesto, quanto alle modalità con cui è avvenuto. Noa ha rivendicato il diritto a una morte “dolce”, pianificata e poco invadente per chi le stava vicino. Non se n’è andata buttandosi sotto una metro, mettendo i bastoni tra le ruote a una folla di pendolari che avrebbero liquidato il suo suicidio più come un inconveniente tempistico che come un gesto disperato che coinvolge l’intera società. E in questo modo la sua morte è stata mediatamente più toccante.
Noa non era un’adolescente triste che aveva bisogno di affetto o di comprensione. L’affetto ce l’aveva, e i suoi amici e parenti l’hanno dimostrato nel modo più estremo, empatico e rispettoso che esista: standole vicino e rispettando la sua scelta
Dice bene il filosofo Davide Sisto nel suo post su Facebook: “(…)Il lavoro di una società come si deve e non indifferente sarebbe quello di mettere tutti nella condizione di darsi una seconda possibilità e di non farla finita. Quindi di non trasformare l’eutanasia nella soluzione per togliersi una seccatura da affrontare. Ma se uno non ce la fa più perché depresso e non trova sostegno sufficiente per guarire e ritrovare la voglia di vivere? E se uno si ritrova a dover affrontare una malattia cronica invalidante che percepisce come fatto che toglie dignità alla sua persona e alla sua vita? Meglio che si sfracelli il cervello con un colpo di pistola o che la faccia finita in modo “dolce”? Credo che l’autodeterminazione debba essere del tutto rispettata, ma all’interno di un contesto sociale e intersoggettivo che faccia veramente tutto il possibile per rendere dignitosa la vita di ciascuno, di modo che il suicidio sia una scelta considerata evitabile”.
Il punto è questo: è giusto che la società lavori il più possibile per migliorare se stessa e il modo in cui si rapporta ai disturbi mentali. È giusto riconoscere una responsabilità sociale, che non andrebbe sbandierata solo in occasione di casi eclatanti, ma messa in pratica nel quotidiano, evitando prima di tutto di stigmatizzare i disturbi psichici, facendo informazione e rendendo l’accesso alle cure il più aperto possibile. È giusto anche meditare sul fatto che, se la depressione colpisce 2,8 milioni di persone, forse c’è qualcosa nella nostra organizzazione sociale che non favorisce il benessere delle persone. Tutto ciò è utile, ma dobbiamo accettare che potrebbe non bastare.
Ciò che invece non è utile, è dare per scontato che con qualche attenzione in più, due farmaci e una carezza, situazioni come quella di Noa si sarebbero potute risolvere. Non è utile perché equivale a equiparare una volta di più la depressione alla tristezza. Noa non era un’adolescente triste che aveva bisogno di affetto o di comprensione. L’affetto ce l’aveva, e i suoi amici e parenti l’hanno dimostrato nel modo più estremo, empatico e rispettoso che esista: standole vicino e rispettando la sua scelta. Gli stupri che ha subìto sono stati certamente eventi traumatici che hanno influenzato per sempre la sua salute mentale, ma non vanno interpretati come la causa univoca e diretta del suo gesto. Una depressione come quella di Noa ha molte concause ed è una patologia invalidante e disperata quanto altre, terribili patologie fisiche.
Laura, che ha resistito qualche anno più di lei, descriveva così la sua situazione: “La mia vita è una guerra quotidiana. Dal giorno in cui venni al mondo. Certi giorni sembrano non passare mai, mi pesa ogni secondo. Ventiquattro anni, equivalgono a un’eternità”.
Noa non era una ragazzina triste. Era una persona per la quale la vita era semplicemente insopportabile.