Bastone e carotaAltro che premio Strega, quest’anno leggetevi i finalisti del Campiello (che fa scintille vere)

Gli scrittori non devono volere premi. Ma se proprio devono esserci, lasciate perdere il Premio Strega, hollywoodiana sagra del perbenismo: al Campiello, quest’anno, ci sono dei libri veri. Uno su tutti? Andrea Tarabbia con “Madrigale senza suono”

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Lo scrittore, per natura, dovrebbe essere una specie di Cappellaio Matto, uno che porta scompiglio – spesso non è neppure il Bianconiglio, è soltanto un coniglietto, va dove gli danno la carota, piacione e coccolone. Insomma, i premi – cioè: le carote – si vincono per fare una foto di gruppo con mecenate, ceffo rigorosamente sorridente, certi, a quel punto, di essere davvero artista. Il Premio Campiello è un premio per poveracci in un paese in cui lo scrittore è trattato a pesci in faccia, è un pezzente che ‘funziona’ se scrive svelto come una fiction, a favore di cervello in vacanza.

Se entri nell’argentea cinquina del premio che ha onorato Primo Levi e Giuseppe Berto, Mario Pomilio e Gesualdo Bufalino, Enzo Bettiza e Giuseppe Pontiggia, ti danno 5mila euro, mica 50mila, non ti mettono nemmeno nelle condizioni di scrivere un capolavoro, per lo meno un altro libro – offrendoti, chessò: una borsa di studio per campare due anni in qualche posto e scrivere e pensare e progettare – che è l’unica cosa che preme, in fondo, allo scrittore, altrimenti, soldi per soldi, tanto vale giocare al Lotto o aprire una piadineria. Per questo, se fossi uno scrittore da ‘cinquina’ – e rischiai di esserlo, in un paio di circostanze, ma conto quanto una fetta d’anguria in un branco di lupi – da aureo poveraccio, li rifiuterei quei soldi, per chi mi avete preso, per uno straccione?, chiedendo, appunto, una borsa di studio, una casa, ospitalità e possibilità per fare ricerca.

Ma è questa, sottilmente, in effetti, l’idea che in Italia si ha dello scrittore. Un miserabile. Uno che deve scrivere libri a dilettare i ricchi, che bevono dal calice di un facile turbamento e ne discutono, fieri, in tavole riccamente adornate, di solito, da uomini rapaci e da donne facili e felici – ci sono stato, so di cosa parlo, e glasso tutti nella più trita compassione. Tuttavia. Quest’anno il Premio Campiello è il festival di Cannes della letteratura italiana, la Mostra del Cinema della scrittura, l’harem dei libri ‘d’essai’, la viticultura del cult. Al contrario dello Strega, specie di hollywoodiana sagra del perbenismo, quest’anno è dal Campiello che uscirà il libro portentoso.

In effetti. Quando l’eracliteo Bruno Giurato, voce epigrafica e muso presocratico, mi fa, guarda i cinque del Campiello, comincio, per difetto di malignità, ad aguzzare le unghie. Leggo. Mi blocco. Macché, dico. Superato il confine della cattiveria – a Venezia si premia ciò che Roma snobba, danno il contentino all’editore mazziato dal sabba dello Strega – torno alla ragione, alla religione della mente. Al Campiello, quest’anno, ci sono dei libri veri, eureka! Uno su tutti. Andrea Tarabbia. Entrato in cinquina per il rotto – te pareva –, con Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri), l’ho scritto decine di volte, ha scritto un libro vero, contorto, arduo, concreto, un Everest di intelligenza e di carnalità narrativa. Se vince lui, lo prometto, faccio fioretto, basta bastonate per 40 giorni, metto in quarantena la mia stupida furia – pur funestata da stupori – e offro carotine a tutti, sulla carotide. Gli altri romanzi giunti in finale sono: l’usato sicuro (Laura Pariani, Il gioco di Santa Oca, La Nave di Teseo), un tris di libri in ogni caso solidi (Carnaio di Guido Cavalli, per Fandango; La vita dispari di Paolo Colagrande; Lo stradone di Francesco Pecoraro), scelti senza andar dietro alle mode o alle velleità da primato in classifica. Quest’anno, le strade della letteratura italiana non portano a Roma, sterzano verso il Veneto.

I premi, premiando lo scrittore, lo marginalizzano, è come se gli dicessero, accontentati dell’assegno – modesto – della fascetta sulla ristampa del libro – e chissenefrega, non è un premio ad autenticare un talento – e stai cheto, buono, zitto

Detto questo, restano sul margine tre cose che vanno dette, in direzione contraria al giorno e alle sorti progressive dell’umanità letteraria.

  1. Dai grandi premi – anche dal Campiello – sono sistematicamente esclusi i piccoli e medi editori, è come se non esistessero. Gli fanno qualche carezza sull’interno coscia, giusto per tenerli a bada, domestici (tra i 12 dello Strega ci sono un romanzo Voland e uno Giulio Perrone e un Marsilio), per poi prenderli a ceffoni, che sadismo, perché a vincere sono sempre gli altri, i soliti, i grandi gruppi. Ma la grande letteratura, ormai, non passa più, da anni, soltanto da lì, dai transatlantici editoriali: ignorare il genio sulla zattera è imperdonabile cecità;
  2. I premi, premiando lo scrittore, lo marginalizzano, è come se gli dicessero, accontentati dell’assegno – modesto – della fascetta sulla ristampa del libro – e chissenefrega, non è un premio ad autenticare un talento – e stai cheto, buono, zitto. Lo scrittore – come il poeta, esiliato dalla Premiopoli nazionale che conta – non ha ruolo (per, eventualmente, dissuadere il ruolo, eluderlo), non ha voce, non ha presenza ‘civica’. Allo scrittore danno un premio, e faccia capriole di gioia, mica gli assegnano una cattedra in Università in scrittura molesta – perché la scrittura è sempre mordere tra le mutande e edificare labirinti su Marte – alla peggio insegna scrittura creativa, che umiliazione. Piuttosto, dovrebbero assumerlo in Parlamento per fare l’avvocato del diavolo, riducendo ministri e potentati a ciò che sono: verbo che va, vento, evanescenza a sventagliate di tweet. Lo scrittore – e il poeta – lo dico anche ai muri e ai torrioni politici, non va in tivù, non è una firma da ‘prima pagina’ – se non si piega al fioretto dell’editoriale politico o non s’impegna a dire vomitevoli banalità di buon senso, sputtanando il suo carisma – non incide nella vitalità civile, non eccede.
  3. Alla luce di quanto detto sopra, lo scrittore dovrebbe rifiutare qualsiasi premio. Ma lo scrittore – anche questo è il suo fascino, forse – è un vile, s’accontenta della fama e della ribalta pur di non scrivere più e di convincersi che non è uno sfigato, ma soltanto un perduto.

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