Il periodo storico che stiamo vivendo ha chiamato gli intellettuali, i sociologhi, gli economisti, i filosofi a pensare alla possibilità di una visione e una conseguente narrazione alternativa per aiutare la politica a uscire dalle maglie di quell’inevitabile attuale che Mark Fisher ha definito “realismo capitalista”. Schiacciata com’è tra l’incapacità del neoliberismo di mantenere le sue promesse e il collasso della socialdemocrazia, la politica si è ridotta a mera gestione dei rapporti esistenti. L’elettorato, quindi, privo di rappresentanza e con un costante risentimento verso un ordine capace solo di acuire le disuguaglianze e premere l’acceleratore sulla competizione, ha reagito alla crisi scegliendo chi meglio incarnava questo risentimento per attaccare il Palazzo e prenderne possesso. Non, però, per generare il nuovo, ma per perpetrare le stesse dinamiche di fondo ma semplicemente spostando il focus. Il populismo è la forma politica che meglio rappresenta questo periodo di transizione perché prende la rabbia delle persone e la voglia di rivalsa e non le incanala in un contenitore nuovo, ma promette che i proprio sogni di gloria sono possibili se si fa piazza pulita delle élite. Non è un discorso sul meccanismo, ma sugli effetti. Un discorso monco.
Anche nella riflessione intellettuale spesso manca qualcosa. Molti discutono giustamente di disuguaglianze spostando il focus via via verso la grande concentrazione del Capitale nelle mani delle big tech; si parla anche di come rinforzare la democrazia ora che l’abbiamo vista smembrata dagli effetti nefasti di quello che Evgeny Morozov ha chiamato “soluzionismo” (ovvero la risposta tecnologica a ogni tipo di soluzione che ha generato sempre più il rigetto della complessità e della lettura dei fenomeni fuori da un rapporto semplice di causa/effetto); la riflessione sul futuro della sinistra si ritira su un dialogo sui ‘vecchi’ valori di una socialdemocrazia mai veramente compiuta mentre in realtà ci sarebbe bisogno di unire alla tradizione una riflessione profonda sulla necessità del nuovo. E il nuovo, in effetti, non può prescindere dall’aspetto teorico, ma soprattutto dalla prospettiva di una conseguenza pratica nella vita di tutti i giorni. Per questo la riflessione — lunga, ricca, elaborata e perseguibile — che Raghuram Rajan dipana lungo le oltre cinquecento pagine de Il terzo pilastro. La comunità dimenticata da Stato e mercati (Egea, 2019) entra nel dibattito spostando il focus su quello di cui c’è più bisogno. Sostanzialmente, un cambio di campo.
Il terzo pilastro si pone come vero e proprio testo fondativo se non di una new wave del pensiero economico, se non altro di una nuova riflessione ‘di sistema’ sul rapporto tra mercato e stati, mettendoli entrambi in discussione inserendo una terza variabile nell’equazione: la comunità
Rajan è stato chief economist del Fondo Monetario Internazionale e ha diretto per tre anni la Bank of India. La sua visione profondamente critica dell’attuale sistema lo ha portato a interrogare i modelli di sviluppo e le conseguenze che l’economia ha sulla vita delle persone (è quello che lo ha spinto a diventare economista partendo da un background di ingegneria). Il terzo pilastro si pone come vero e proprio testo fondativo se non di una new wave del pensiero economico, se non altro di una nuova riflessione ‘di sistema’ sul rapporto tra mercato e stati, mettendoli entrambi in discussione inserendo una terza variabile nell’equazione: la comunità. Quella che la politica usa come parola vuota (la comunità è uno di quei significanti immaginari che sia i populisti, sia i partiti tradizionali usano per tentare di costruire un senso di appartenenza buono per tutte le stagioni), qui diventa il motore ultimo di un’azione che deve prevedere una completa revisione dei livelli macro, ma puntare a un rinnovato senso di cooperazione e collaborazione tra le persone che si sentono appartenente una stessa comunità.
Se vogliamo è una riflessione che dialoga con quella che molti altri intellettuali e scrittori, curiosamente tutti indiani, hanno messo in piedi negli ultimi anni. In Connectography e La rinascita delle città stato (entrambi per Fazi) Parag Khanna usa il modello della città-comunità come enclave di costruzione di un nuovo orizzonte d’avanguardia per affrontare le sfide del nuovo mondo; ne La vita segreta delle città (Einaudi) Suketu Mehta spiega come la ricchezza delle città, soprattutto oltre l’involucro lucente della gentrification e dei quartieri vincenti della classe creativa globale, risultasse nella commistione di diverse comunità capaci di creare il nuovo dai rispettivi punti in comune. Tutte visioni per superare quella che un altro indiano, Pankaj Mishra, ha definito L’età della rabbia (Mondadori). E nel libro di Rajan troviamo ben spiegata con l’idea del “localismo inclusivo”.
Il “localismo inclusivo” si pone come soggetto inedito che prende il pregio delle comunità (prossimità, solidarietà, volontà di lavorare per il bene comune) e lo mette a sistema come nuovo motore politico oltre lo stato (necessario, ma che deve cedere sovranità al locale per permettere alle forze fresche di essere stimolate e poter crescere) e capace di dialogare sulla scena internazionale
Il “localismo inclusivo” si pone come soggetto inedito che prende il pregio delle comunità (prossimità, solidarietà, volontà di lavorare per il bene comune) e lo mette a sistema come nuovo motore politico oltre lo stato (necessario, ma che deve cedere sovranità al locale per permettere alle forze fresche di essere stimolate e poter crescere) e capace di dialogare sulla scena internazionale. Se vogliamo, facendo uno sforzo speculativo che possiamo girare in politico, questa dimensione tra nuovo localismo inclusivo e necessità di assorbire in sé la ricchezza del mondo con nuove prassi e nuove dinamiche di partecipazione (questa la parola chiave) è esattamente il motore che sta rendendo funzionante e attrattiva l’esperienza del Fridays For Future. Il nuovo ecologismo nato attorno alla figura di Greta Thunberg riesce ad affrontare una sfida globale con mezzi sempre adattabili al contesto in cui si vive. È un movimento che dialoga in tutto il mondo ma non dimentica la biodiversità della propria proposta. E apre alla partecipazione di chi vuole prendersi cura della propria comunità senza una barriera ideologica, ma con una condivisione di valori (appunto) che rendono la sfida più che mai interessante. Per rendere questo modello funzionante, suggerisce Rajan, bisogna evitare le ingerenze dello stato-Leviatano e del mercato-Beemot, entrambi spesso poco interessati al destino delle comunità perché uniche entità in grado di regolarne gli eccessi.
Il pregio de Il terzo pilastro è rimettere in piedi la necessità di una visione ‘di sistema’. Dove l’economia e lo stato sono fondamentali, ma dentro uno schema e una riflessione che prevede le persone come entità concrete, non come soggetti astratti da trattare come materiale da statistiche. E il “localismo inclusivo” può essere una buona idea per rimettere in piedi un’idea di sinistra che torna a prendersi cura del mondo senza dimenticare la concretezza delle azioni quotidiane. In fondo, l’ultima grande stagione in cui stavamo tutti pensando di riuscire a cambiare il mondo è stata quella del “locale che diventava globale”, e in fondo un po’ di ragione ce l’avevamo.