Romulo Emmanuel Salvador, 29 anni, nato a Roma da genitori filippini, cittadino italiano, sceneggiatore televisivo, ha collaborato alla serie Baby sulla prostituzione femminile che prende spunto da una storia di cronaca ai Parioli, disponibile su Netflix. Da professionista della comunicazione, giura che bisogna cambiare anche narrazione sui migranti: «Fino a che si parla di integrazione vuol dire che non è ancora avvenuta. Non credo che serva fare un film sull’integrazione. Meglio un film dove i protagonisti sono i migranti, gli italiani di seconda generazione… Di fronte ai muri che vengono eretti l’arte è la risposta».
Cosa ha portato la sua famiglia in Italia?
Mia zia lavorava già in Italia. Per mio padre è stato facile decidere di venire qui. Nell’83 si è trasferito a Roma. Tre anni dopo l’ha raggiunto mia madre. Poi sono nato io. Mio padre ha una ditta di spedizioni e un ristorante filippino.
È stata dura da ragazzino essere italiano di origine straniera?
No sono stato molto fortunato. Viviamo a Trastevere che è come un villaggio, conosciamo tutti. Mio padre si chiama come me. Lui è Romolo e io per tutti ero il piccolo Romoletto. Venivo coccolato da tutti. Alle elementari alla scuola Regina Margherita le classi erano multietniche. C’era un somalo, un irlandese, due inglesi, un altro filippino… L’integrazione passava anche attraverso i laboratori culinari che facevamo a scuola. Si portava un piatto della propria tradizione e si raccontava la ricetta. Eravamo tutti uguali.
Alle elementari alla scuola Regina Margherita le classi erano multietniche. C’era un somalo, un irlandese, due inglesi, un altro filippino… L’integrazione passava anche attraverso i laboratori culinari che facevamo a scuola. Si portava un piatto della propria tradizione e si raccontava la ricetta. Eravamo tutti uguali
Mai un problema?
Di natura sono una persona molto positiva anche davanti ai conflitti. Sono molto integrato, ho la padronanza della lingua, si percepisce che appartengo a questa cultura.Che studi ha fatto?
Ho una laurea in Beni culturali a indirizzo musicale e spettacolo.È cittadino italiano?
Da 18 anni. I miei genitori non ancora. Ma non è più un problema per loro, avendo figli italiani. Mio padre poi è stato consigliere comunale aggiunto a Roma.Alla fine si sente più italiano o filippino?
Dipende dalla situazione. Diciamo 65% italiano e 35% filippino. Mia madre in casa parla filippino. Io in italiano. E in inglese. Parlo in italiano perché è la lingua del pensiero. Ci sono sfumature che altre lingue non hanno, penso all’inglese che è molto più diretto. Sei obbligato a pensare di più alle parole e alla costruzione delle frasi. Non mi capita invece mai di pensare in filippino. Al massimo qualche volta in inglese. Ma è anche da 13 anni che non vado nelle Filippine.Lei è uno sceneggiatore. Essere figlio di più culture l’aiuta nel suo lavoro?
Faccio parte di un collettivo di scrittura che si chiama GRAMS*. Abbiamo una writers room dove elaboriamo i nostri progetti. Gran parte del mio lavoro più che alle parole è legato alle immagini. Bisogna avere una certa sensibilità. Il fatto di provenire da background culturali diversi mi permette di avere diversi punti di vista. Sei più portato a non dare per scontate le cose.