In uno dei capitoli più interessanti di Retromania, il fondamentale saggio con cui Simon Reynolds racconta l’incapacità della musica di pensare un futuro possibile, si racconta il sempre più radicato e strutturale processo di musealizzazione della musica pop. Il punto di partenza è l’esperienza del Museum of Pop Music di Londra, ma può essere esteso anche alla feticizzazione che da anni si fa dello ‘stile rock’n’roll’ dentro gli Hard Rock Café (o su Virgin Radio) o alla crescente importanza che ha assunto nell’annata discografica l’inserimento degli artisti nella Rock’n’Roll Hall of Fame. Se ci fosse la possibilità di aggiornare questa mappa, oggi, bisognerebbe includere il biopic, che grazie a Bohemian Rhapsody e Rocketman — film con protagonisti i Queen e Freddie Mercury (interpretato dal premiatissimo Rami Malek) il primo, e Elton John il secondo — sta vivendo una fortunata stagione di incassi, premi e addirittura recensioni positive.
Il biopic non è un genere nuovo, e si possono contare numerose pubblicazioni che analizzano il modo in cui il cinema ha trattato figure fondamentali della storia della musica rock, ma questi ultimi due film hanno segnato in qualche modo un cambio di registro. È uno snodo fondamentale che cambia tutto. Con questi film, il biopic non è più un esercizio di riflessione critica (più o meno riuscita) su un musicista, ma diventa invece il momento in cui quello stesso musicista in modo sistemico produce la sua stessa agiografia, la sua stessa redenzione e il suo stesso ingresso nel museo della leggenda.
Il biopic non è più un esercizio di riflessione critica, ma diventa invece il momento in cui quello stesso musicista in modo sistemico produce la sua stessa agiografia
Chiariamoci, sia i Queen che Elton John sono tra gli artisti più venduti di tutti i tempi, e i film funzionano e hanno funzionato sempre come veicolo commerciale per tirare su le vendite di un catalogo destinato ad avere un ruolo ancora più centrale nel futuro di quel che resta dell’industria discografica. Non hanno certo bisogno di un lungometraggio sulla loro già chiacchieratissima vita per entrare a tutti gli effetti nella leggenda (in fondo l’Elton John degli anni Settanta è già considerato dai critici uno dei più grandi autori pop di tutti i tempi).
È però curioso vedere come entrambi questi film, attraverso un racconto poverissimo e un rispetto davvero basso per quella che potremmo chiamare ‘questione cinematografica’, puntano solo ed esclusivamente a santificare il proprio protagonista. Trattano lo stesso argomento (il racconto di una personalità debordante, un individuo larger-than-life dotato di un talento straordinario) attraverso le stesse dinamiche. L’infanzia difficile e il rapporto complicato con la famiglia, il padre soprattutto; la scoperta dell’omosessualità vissuta con colpa e in attesa di redenzione attraverso l’amore (c’è anche un sottile strato di moralismo nel tratteggiare la dissoluzione degli anni bui del sesso selvaggio, della droga, degli eccessi nello stesso identico modo); il breakdown emotivo in seguito al peso del successo e per colpa di cattivi consiglieri/amanti; l’immancabile redenzione finale grazie anche alla benevolenza degli amici-soci-santi che sono sempre lì in attesa del momento del ritorno che cancella tutto: «ehi, sono pentito, amici come prima?».
L’Elton John di Taron Egerton e il Freddie Mercury di Rami Malek sono personaggi interscambiabili laddove le loro storie sono invece due modi diversi di raccontare l’Inghilterra, il pop, la liberazione sessuale e la cultura gay. Appiattendo tutto sull’agiografia, e dirigendola (altra coincidenza, il regista di Rocketman, Dexter Fletcher, è stato chiamato dalla produzione di Bohemian Rhapsody a completare il lavoro di Bryan Singer) in un modo rozzo e dozzinale, con momenti che strizzano al queer per risultare invece semplicemente squallidi, e altri che invece pretendono di essere visionari e invece lasciano molto più banalmente basiti, risulta solo il fastidio di un’occasione persa e la riduzione alla banalità che non fa servizio alla musica pop, alle personalità che vengono raccontate, e al cinema (che forse in questo momento di trionfo della serialità televisiva avrebbe bisogno di qualcosa di diverso).
Si predilige la show e ci si dimentica quello di cui lo show è fatto: la musica
Questa “new wave of biopic” rischia prendere una brutta piega. Se già la serie Hbo Vinyl (prodotta da Martin Scorsese e da Mick Jagger) è stata vittima della sua stessa nostalgia e della reificazione feticistica degli stereotipi e dei cliché del rock nella New York degli anni Settanta, qui si va oltre. Perché oltre a tutto questo, c’è il marchio di fabbrica di due film che sono stati prodotti dagli stessi protagonisti dell’opera, e che risulta difficile credere non abbiano controllato e influito sul processo di realizzazione.
Elton John, che ha prodotto Rocketman, si sarà pure degnato di farsi ritrarre come una persona abietta (del resto, ogni regola per un buon racconto è prendere il protagonista e fargli mostrare il peggio di sé), ma la sua redenzione oltre a essere moralistica, appunto, risulta un po’ troppo facile: mi sono pentito, adesso sono cambiato, è tutta colpa dell’alcool, delle droghe e della sessuomania, ora colpo di spugna. Freddie Mercury invece trova la redenzione attraverso la malattia, e torna a casa dopo aver fatto letteralmente di tutto e nonostante questo viene accolto come il figliol prodigo da un Brian May per tutto il film santone saggio che trova sempre il giusto equilibrio e non sbaglia mai, e da un Roger Taylor che pur avendo sempre avuto degli screzi con il cantante (“Roger c’è spazio per una sola regina isterica in questa band”) trova nella sua infinità bontà la capacità di perdonare. May e Taylor risultato produttori di Bohemian Rhapsody.
Inoltre, in questi film ci si concentra sullo spettacolo e si perde la profondità. Si predilige la show e ci si dimentica quello di cui lo show è fatto: la musica. Quello che dovrebbe essere il centro di tutto spesso diventa un orpello, qualcosa che c’è ma potrebbe anche non esserci. Non viene spiegata, non è al centro del racconto, non è il motore dell’azione. Rocketman risolve la questione dicendo che Elton John è un talento naturale e Bernie Taupin (anche lui amico santo) uno che scrive tantissimo. Bohemian Rhapsody la gira tutta nell’enorme ambizione dei Queen di superare i limiti del pop per come lo si conosceva negli anni Settanta (e su questo ne potremmo discutere per ore). Ma non viene veramente raccontato come sia stata la musica il motore del riscatto di personaggi borderline, dei veri e propri misfits, strumenti di tensione e liberazione. No. Tutto piatto. Tutto a disposizione. Tutto estremamente pacificato e vendibile. Del resto, nel museo, ci sono un sacco di belle statuine e quando si entra nella Hall of Fame, ci si fa il nodo alla cravatta. Qui c’è qualcosa che non va.