Dal 2011, la Siria è sconvolta da una lunga e dolorosa guerra. In questa situazione, i cristiani di Siria hanno temuto per la propria sopravvivenza. Su di loro incombevano le vicende in Iraq, dove le comunità cristiane sono state ridotte ai minimi termini e il ricordo più lontano, ma non meno drammatico, dei massacri operati tra il 1915 e il 1918. Nonostante questo, la loro voce, la loro analisi della situazione, la loro protesta rispetto ad alcune decisioni dei Paesi occidentali coinvolti nella crisi è sempre stata relegata ai margini, quando non addirittura censurata. Perché? Questo libro, servendosi di testimonianze di prima mano e di una accurata ricostruzione degli eventi, cerca di rispondere a tale imbarazzante domanda. E di ridare voce ai cristiani che cercano ora di essere in prima fila non solo nella ricostruzione della Siria ma anche nella cura delle profonde ferite che il conflitto ha inferto. Pubblichiamo l’introduzione a Siria. I cristiani nella guerra. Da Assad al futuro di Fulvio Scaglione (Edizioni Paoline)
Una la chiameremo la Suora. L’altra, la Giornalista. La Giornalista non è mai stata in Siria ma ha notato la Suora, a vario titolo protagonista di articoli e servizi comprasi sulla stampa italiana. Così la contatta e le chiede aiuto. La Suora si dà da fare, la invita a Damasco, le procura il visto che altrimenti non avrebbe mai ottenuto, la ospita, la mette in contatto con le comunità cristiane di altre città, le passa indirizzi e riferimenti. Siamo nella primavera del 2018, nelle settimane in cui l’esercito siriano, che ha appena riconquistato Dar’a, città del Sud prossima al confine con la Giordania, sembra apprestarsi a muovere verso Nord contro Idlib, ultimo baluardo dei jihadisti e dei ribelli. Al ritorno in Italia la Giornalista pubblica una serie di articoli che la Suora contesta, perché offrono un ritratto della situazione che a lei pare tendenzioso e non veritiero. E si sente rispondere che lei, la Giornalista, “si occupa di verità” e che la Suora farebbe meglio a tacere perché “la politica e la propaganda non le competono”.
La Giornalista è sicura di aver scoperto e raccontato la “verità” nei pochissimi giorni del suo primo soggiorno in Siria. E ritiene che il parere della Suora, siriana, nata a Ghassaniyeh, un villaggio a maggioranza cristiana della provincia di Idlib, e per lunghi anni impegnata a lenire le sofferenze di adulti e bambini colpiti dalle conseguenze della guerra in una casa-rifugio di Damasco, sia “propaganda” allorché non coincide con il suo. Non solo. La Suora, secondo la giornalista, non deve occuparsi di “politica”, non deve avere un parere su quanto accade al, nel e contro il suo Paese. Non le compete. Faccia il bene e taccia, è in sostanza il messaggio, che alla verità pensiamo noi.
È un episodio piccolo, infinitesimale anzi, nell’enorme tragedia che dal 2011 si dispiega in Siria. Ma è indicativo del capovolgimento di senso e di criterio che è stato organizzato ai danni dell’opinione pubblica occidentale e che si è scaricato in particolar modo, diciamo pure con particolare accanimento, sulla minoranza cristiana del Paese. Lo si è visto a tutti i livelli. La clamorosa testimonianza portata il 4 ottobre del 2016 dall’arcivescovo maronita di Aleppo, monsignor Joseph Tobji, alla Commissione Esteri del Senato è stata sepolta in tutta fretta nell’indifferenza dei grandi media e valorizzata solo dal reticolo dell’informazione alternativa, con tutti i rischi di strumentalizzazione del caso. E quando monsignor Jean-Clément Jeanbart, arcivescovo della Chiesa greco-cattolica (melkita) di Aleppo, nell’ottobre del 2015 disse che l’intervento militare della Russia di Vladimir Putin (iniziato qualche settimana prima) “restituiva speranza e ridava fiducia” ai cristiani siriani, le sue dichiarazioni furono riportate dai giornali europei con stupore e scandalo.
È occorso molto tempo perché la voce di fra Ibrahim Alsabagh, soprannominato “il parroco di Aleppo”, il frate francescano che ha vissuto tutto il periodo dell’assedio alla città da parte dei jihadisti di Al Nusra e dei foreign fighters loro alleati e con i confratelli ha soccorso migliaia di persone di ogni età e di ogni fede, sfondasse il muro dell’indifferenza e risuonasse anche presso i grandi mezzi di comunicazione. Anche se fra Ibrahim ha pubblicato almeno due libri straordinari con le cronache della guerra e del dolore che si dispiegavano sotto i suoi occhi.
Per non parlare, infine, dei tentativi di coinvolgere un tanto al chilo le “Chiese siriane” o i “vescovi siriani” (tutte le Chiese? Tutti i vescovi?) nella sparizione di padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita fondatore della comunità di Deir Mar Musa, rapito il 29 luglio del 2013 mentre si trovava a Raqqa, capitale dell’autoproclamato Califfato, e mai più ricomparso.
In altre parole, si è scientificamente scelto di silenziare l’opinione dei cristiani di Siria sugli avvenimenti di Siria, o di screditarla come quella di un gruppo reso inaffidabile da una lunga serie di fattori. Eccone alcuni. La paura cieca dei musulmani, trasformata nel culto dell’uomo forte che, dal vertice dello Stato, protegge le minoranze. La presunta alleanza “senza se e senza ma” con Bashar al-Assad, a sua volta Presidente della Repubblica siriana ma soprattutto esponente più in vista di una dittatura brutale e corrotta, capace però di distribuire favori e privilegi. La pura e semplice ignoranza, l’arretratezza culturale, l’incapacità di leggere i segni dei tempi e di partecipare al moto di rinnovamento democratico che, nella lettura della stragrande maggioranza dei media dei Paesi europei e occidentali, guarda caso in perfetta coincidenza con le posizioni dei rispettivi Governi, si apprestava a cambiare il volto della Siria.
Un’operazione di censura, ma duplice. Religiosa, perché ha introdotto, all’interno delle Chiese, una discriminazione tra coloro che, a torto o a ragione, abbracciavano la causa della protesta anti-Assad (considerati, per quel solo fatto, i veri cristiani) e coloro che, con diverse inclinazioni e sfumature, e anche qui a torto o a ragione, invitavano a una più attenta riflessione. Ma anche civile, perché ha emarginato il più possibile dal dibattito pubblico occidentale le voci di coloro che vivevano la crisi e la guerra sulla propria pelle ed erano colpevoli solo di avere un parere divergente rispetto al cosiddetto “senso comune”. Abbiamo ascoltato con rispetto, in questi anni, le analisi e i commenti di siriani che non sono nati in Siria o che mancano dalla Siria da decenni o che hanno motivo, magari assai giustificato, di detestare l’attuale assetto politico e civile della Siria, prendendoli sempre come oggettivi, affidabili, inconfutabili. E abbiamo invece nascosto con fastidio gli appelli dei cristiani che tuttora vivono in Siria e che si sono rifiutati di lasciarla anche quando la tragedia sembrava destinata a travolgerla.
Per ottenere questo risultato, è stata elaborata una tesi manichea (tutto il bene da un lato, tutto il male dall’altro) che, partendo da alcuni oggettivi dati di fatto, ha costruito una narrazione largamente immaginaria, che si è poi schiacciata sulla dottrina della “esportazione della democrazia” che dal 1989 e dal crollo del Muro di Berlino, quando fu varata dal presidente George Bush senior e dal suo segretario di Stato James Baker, costituisce la spina dorsale della politica estera degli Usa e di molti Paesi europei. Dottrina che ha trasformato l’idea della “ingerenza umanitaria” nel cavallo di Troia di interessi economici e geopolitici di antico stampo imperialistico, ai quali è del tutto indifferente la sorte delle minoranze etniche e religiose che popolano il Medio Oriente. Si vedano, perv l’ennesima conferma, le recentissime peripezie dei curdi, prima “usati” dagli americani per combattere l’Isis e poi abbandonati da Donald Trump alle cannonate della Turchia e al ritorno del potere centrale di Damasco.
Nulla di inedito, appunto. Si è rimesso in moto lo stesso meccanismo che precedette e accompagnò l’invasione anglo-americana dell’Iraq del 2003. Là in forma più grottesca, con la campagna di menzogne e i teatrini a base di finte prove e vere provette messi in scena all’Onu. In Siria con qualche pretesto in meno ma con esiti assai più disastrosi e con una rozzezza politica che ha accantonato con sufficienza le pur numerose lezioni già ricevute (Afghanistan, Iraq, Libia…) e ha quindi ripetuto pari pari gli stessi errori. Ammesso sempre che si trattasse di errori, ovvero di passi falsi nel raggiungere l’obiettivo tante volte dichiarato di contribuire a diffondere libertà e democrazia, e non della procedura standard da applicare quando si vuole distruggere un Paese considerato ostile o non allineato.
Uno di questi “errori”, molto evidente in Medio Oriente, è stato ed è ignorare gli ammonimenti dei cristiani locali. Mi trovavo in Iraq nel 2003, pochi giorni prima dell’invasione comandata da George Bush junior e Tony Blair, e come inviato di Famiglia Cristiana ebbi tra l’altro occasione di intervistare monsignor Shlemon Warduni, in quel momento massimo esponente della Chiesa cattolica caldea, in quanto facente funzione di patriarca dopo la morte di Sua Beatitudine Raphael I Bidawid. Erano i giorni in cui, dopo la missione in Iraq del cardinale Roger Etchegaray, latore di una lettera di san Giovanni Paolo II a Saddam Hussein, ancora si sperava in un intervento risolutore del Vaticano. Si aspettava l’incontro tra il vice presidente Tarek Aziz e il Papa, e si immaginava, addirittura, che lo stesso Papa potesse recarsi a Baghdad per mettere la sordina ai tamburi della guerra, mentre le marce per la pace attraversavano le città di tutta Europa.
Eppure monsignor Warduni, che aveva ben altra coscienza dei problemi, sembrava immerso in un pessimismo profondo, alle soglie della disperazione. Come se già avesse davanti agli occhi gli spettri che di lì a poco avrebbero dilaniato il suo Paese e la sua comunità. Ritrascrivo qui alcuni degli appunti di allora. «Le potenze occidentali sanno poco dell’Iraq e delle sue dinamiche interne», diceva il vescovo, «decidere un intervento militare sulla base di conoscenze scarse, quando non addirittura errate, può portare a un colossale disastro». Ancora: «L’embargo ha già fatto danni enormi, i giovani più intraprendenti e preparati se ne sono andati, il resto della popolazione è in miseria. Si parla tanto delle armi, è giusto farlo, ma a quanto pare sono pericolose solo le armi dell’Iraq». Ancora: «La nostra grande paura è la rivincita degli sciiti. Sono tanti, sono stati umiliati dal regime sunnita di Saddam, non vedono l’ora di vendicarsi». E infine: «Se solo proviamo a dire che la guerra non è la soluzione, subito cominciano a gridare e ad accusarci di essere complici di Saddam». Non suggerisce nulla questo vecchio ricordo iracheno? C’è qualcosa delle previsioni di monsignor Warduni che non si sia avverata? Non sono strategie, propagande, misfatti e tragedie che abbiamo visto ripetersi nella Siria devastata dalla guerra cominciata nel 2011?
Uno dei capitoli più sconcertanti dell’arroganza occidentale nei confronti del Medio Oriente sta proprio in questo: nel rifiuto costante di ascoltare i messaggi che i cristiani, non a caso sempre meno numerosi e sempre più inermi, ci mandano sulla situazione dei loro Paesi e della loro regione. Anche se proprio i cristiani dovrebbero essere i nostri primi interlocutori, se non proprio i nostri primi consiglieri, allo scoppiare di una qualunque crisi. E questo per una serie precisa di ragioni.
In primo luogo, nessuno conosce il Medio Oriente come i cristiani. Loro sono nati lì, nella Palestina della Bibbia, e cominciarono a chiamarsi cristiani ad Antiochia (“Ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani”), cioè in uno dei centri della Grande Siria, una decina di anni dopo la morte di Gesù. L’apostolo Tommaso predicò in Siria, fondò le comunità cristiane di Babilonia, prima di spingersi molto oltre verso Est. Una missione evangelizzatrice che ebbe risultati così grandi e profondi da far sì che, in seguito, il Medio Oriente diventasse la base di partenza per missioni che arrivarono fino in India, Mongolia e Cina proprio nel periodo in cui, scomparso Maometto, la neonata comunità islamica era devastata dalla guerra intestina che avrebbe deciso le sorti del califfato e innescato la rivalità tra sciiti e sunniti che ancora oggi agita questa parte di mondo.
Ma non solo: c’erano regni cristiani, in Medio Oriente, secoli prima della nascita di Maometto. E quando poi la conquista islamica, tra il Seicento e l’Ottocento, si fece imperiosa e dilagò dalla Spagna all’Asia Centrale, furono i cristiani, che stavano diventando minoranza, a trasmetterle con i loro dotti l’enorme patrimonio culturale dell’ellenismo, accompagnandola verso l’apogeo e nello stesso tempo imparando a vivere nella condizione di dhimmi, che da allora li ha accompagnati (quasi) sempre e (quasi) ovunque nella regione.
Nessuno, ripetiamolo, conosce il Medio Oriente meglio dei cristiani. E nessuno ha accumulato, come loro, un’esperienza di quindici secoli nel confronto con il mondo islamico. Nessuno ha combattuto le stessa dura lotta per tener viva la fede individuale in un ambiente dominato da una religione e una cultura che aspirano al monopolio, e insieme per difendere anche una presenza sociale collettiva attraverso strutture che testimoniano della resistenza e della salute della comunità: le scuole, gli ospedali, le reti assistenziali, gli asili, le iniziative culturali. Davvero possiamo fare a meno di questo patrimonio? Davvero i consigli dei cristiani dell’Iraq o della Siria non ci servono? Siamo proprio convinti di saperne di più? E se è così, perché le nostre imprese in Medio Oriente finiscono così male, tanto da produrre sempre e solo due risultati: o devastiamo (o contribuiamo a devastare) interi Paesi, oppure aiutiamo dittature e regimi autoritari a rafforzarsi e prosperare?
C’è un’altra ragione per cui dovremmo tenerci caro il consiglio dei cristiani del Medio Oriente. Come fecero da “interpreti” del patrimonio culturale ellenistico per la rampante cultura islamica del Settecento e dell’Ottocento, accompagnandola alla straordinaria fioritura che segnò i cinque secoli di dominio della dinastia abbaside, così oggi i cristiani orientali possono aiutare noi a “decifrare” quel mondo islamico in cui loro sono immersi, con cui hanno imparato a trattare e che per noi occidentali resta invece di difficile approccio. È indubbio che, tra tutti coloro che vivono in Medio Oriente, i cristiani formano la parte di popolazione con cui è per noi europei e occidentali più facile intendersi e scambiare informazioni. La nostra Europa, anche nella sua versione più laicizzata, condivide con i cristiani orientali un patrimonio di valori (la libertà di culto, i diritti dell’uomo, la dignità della donna, la distinzione tra Stato e Chiesa, per citarne solo alcuni) che, in quella misura e in quella profondità, non è rintracciabile in nessun’altra componente del complesso puzzle mediorientale. In poche parole: sono i cristiani il nostro interlocutore naturale.
Per finire, una terza considerazione. Ascoltare i cristiani del Medio Oriente è indispensabile. Avere a cuore la loro sorte, persino proteggerli, sarebbe doveroso. Non tanto per loro ma per il bene dell’intera regione. La storia contemporanea dimostra che dove i cristiani resistono o resistevano, resiste o resisteva anche una parvenza di società plurale, multiconfessionale e multietnica. Per esempio in Libano, Giordania, Palestina, Israele, Egitto. Nell’Iraq prima del 2003 e nella Siria prima del 2011. Condizione assai più basilare e decisiva, almeno in Medio Oriente, di qualunque assetto politico. Dove i cristiani non ci sono più, o dove è stata mortificata o annientata la loro presenza sociale in quanto comunità, la deriva nel settarismo etnico-religioso è totale. Arabia Saudita, Bahrein, Iran, l’Iraq dopo l’invasione del 2003 ce lo dimostrano ogni giorno. I cristiani sono il terzo elemento che impedisce, o frena, lo scontro totale tra sciiti e sunniti (o tra sunniti moderati e sunniti estremisti) e impedisce l’estinzione anche delle altre minoranze. Sono una diga fragile, certo, ma decisiva. E noi dovremmo almeno evitare di picconarla.
Trascurare questi fatti è un suicidio per chi voglia avvicinare il Medio Oriente. Figuriamoci per chi pretenda di invaderlo, cambiarlo, democratizzarlo o controllarlo invaderlo. Eppure è proprio ciò che continuiamo a fare, ultimo caso la Siria. Forse gratificati dal fatto che, in ogni caso, il nostro “suicidio” sarà pagato, di volta in volta, dagli afghani, dagli iracheni, dai libici, dai siriani. Da tutti, insomma, tranne che da noi. Che siamo così abituati a sentirci intoccabili che lanciamo allarmi venati di isteria ogni volta che ci sentiamo toccati da certi problemi. Basti pensare che è stato considerato un anno nero per la sicurezza in Europa il 2017 che, con 33 attacchi terroristici e 62 morti in dodici mesi, è stato sì terribile ma sempre meno sanguinoso in totale di un qualunque mese dello stesso 2017 in Iraq.
Questo è l’argomento delle pagine che seguono ma è, soprattutto, il tema che da decenni si agita, irrisolto, nel nostro rapporto con il Medio Oriente. L’atroce guerra siriana non ha fatto che riportarlo alla ribalta e, se possibile, acuirlo.