Quando qualche mese fa scrivevamo che, in mancanza di una politica di sinistra degna di questo nome, l’alternativa che intercettasse la domanda di una “sinistra diffusa” presente nel paese sarebbe arrivata dal basso, guardavamo con interesse a tutte le esperienze di associazionismo, innovazione grassroots, esperienze di cittadinanza attiva che si muovono fuori dai circuiti istituzionali (non evitandoli, ma seguendo in prima battuta logiche diverse) e cercano di segnare il campo da gioco fuori dalla dinamica partitica che. in questo momento, è più interessata alla sopravvivenza che altro. Una di queste esperienze è la Scuola Open Source di Bari, un «luogo dedicato all’innovazione, sociale e tecnologica, dove svolgere attività didattiche, culturali e di ricerca». Attiva già da qualche anno, la Scuola si occupa di promuovere nuove pratiche aggregative e nuovi modelli di azione civica come un hackerspace dove le persone si possono incontrare e collaborare ai progetti più disparati (dall’editoria alla robotica); un centro del riuso, per affrontare il tema dell’obsolescenza degli oggetti e un FabLab. Il tutto all’insegna della nonlinearità, della didattica aperta e della collaborazione.
Si tratta di un esempio virtuoso e sinceramente partecipativo, che ogni anni cerca di portare avanti la propria missione aggiungendo un tassello in più. In questo schema si inserisce “XYZ2019 – Comunità Eretiche”, il laboratorio di ricerca e co-progettazione che si terrà al Convento Meridiano di Cerreto Sannita in provincia di Benevento dal 23 al 31 luglio. «È la prima volta che un Convento in un’area interna viene dato in concessione gratuità per promuovere progetti di rigenerazione urbana» ci spiega Alessandro Tartaglia, direttore didattico della Scuola. «Siamo dentro un contesto particolare, quello del Sannio, della Valle Telesina, nell’Appennino campano. E negli anni questo convento è riuscito a diventare un polo attrattivo grazie a una Ats — associazione temporanea di scopo — guidata dall’associazione di Promozione Sociale “Mediterraneo Comune”, che sta avviando la creazione di questo CPCI, centro di produzione culturale indipendente, che diventerà un altro punto su una mappa che si sta arricchendo insieme a luoghi come Macao, Wemake e Ex-Fadda. Un progetto che ha già suscitato molto interesse vincendo il bando Culturability di quest’anno». La particolarità ulteriore, ci spiega, è che: «questo tipo di azione ha come scopo ultimo la valorizzazione dei beni comuni. Inoltre, si tratta di un esperimento che vuole creare un luogo autogestito di innovazione sociale e trasformazione culturale».
«Questo tipo di azione ha come scopo ultimo la valorizzazione dei beni comuni. Inoltre, si tratta di un esperimento che vuole creare un luogo autogestito di innovazione sociale e trasformazione culturale»
In un contesto del genere portare lì uno degli incontri di punta della Scuola — che è ormai diventata un punto di riferimento nella rete italiana dell’innovazione sociale — rappresenta un segnale molto chiaro. Un incontro di nove giorni — con laboratori, lezioni, spazi di confronto e prove pratiche: insomma, non è una vacanza — con l’obiettivo di rimettere in circolo la partecipazione attiva della comunità «attraverso l’eguaglianza nelle opportunità e il riequilibrio delle disparità», che si rivolge a comunicatori, “hacker” (cioè tutti coloro che vogliono manomettere le cose per crearne di nuove) e “coltivatori di comunità”. «Non esiste una cosa del genere in giro» spiega con un po’ di sacrosanto orgoglio Tartaglia «per di più gratis». Già, perché la partecipazione al workshop — le cui iscrizioni scadono il 30 giugno, quindi se siete interessati vi conviene sbrigarvi (qui tutte le informazioni) — è completamente (tranne vitto e alloggio, che però è garantito nel convento) gratuita. Fare cose innovative, in un modo diverso e non legato a un ritorno sul breve termine e a scopo di visibilità funzionale a qualcos’altro è effettivamente possibile.
È da qualche mese ormai che in molti stanno indicando nel “ritorno della comunità” il vero antidoto all’attuale fase di stagnazione politica. Sospesi tra una dialettica parlamentare logorante e schiava di un contingente dettato da dinamiche di propaganda; in mancanza di una vera e propria alternativa progressista al realismo capitalista; con la volontà di “fare rete” tra le centinaia di esperienze che non si vogliono arrendere all’inevitabile individualismo di una società che non riesce più a pensare a istanze collettive, risposte come queste rappresentano la dimostrazione migliore — ed è migliore perché costantemente perfettibile, ma perfettibile perché aperta ai contributi di tutti — che qualcosa di diverso si può costruire. La “comunità” non è il luogo della chiusura, ma è quella in cui l’istanza locale incontra il bisogno globale e insieme generano il nuovo partendo non tanto dagli obiettivi, ma da un rinnovamento delle pratiche, dei metodi e delle finalità. Forse vale la pena darle una possibilità.