Una delle frasi più famose della storia, addirittura secondo alcuni scrittori, fu anche “una delle più memorabili espressioni in lingua inglese”, famosa “come qualsiasi cosa scritta da Shakespeare”. Si esagera, certo, anche perché le celebri parole pronunciate da Neil Armstrong quando fu sulla Luna erano sbagliate. O meglio, lui se le era studiate per bene, aveva provato e riprovato e poi, al momento del dunque, quando il primo essere umano della storia mette piede sul suolo lunare, riesce a sbagliare. Un classico.
“That’s one small step for man, one giant leap for mankind”, ha detto. E l’audio lo conferma: gli spettatori dell’epoca avevano visto e sentito bene. Una frase in sé poco sensata, perché “man” e “mankind” diventano, in questo modo, sinonimi.
Inutile poi tentare di ribaltare la frittata e di insistere che un “a” lui l’aveva messo, ma che gli altri non lo avevano sentito, o che le comunicazioni erano difficoltose, o che qualcosa fosse andato perso nei segnali Luna-Terra, perché in realtà la frase giusta, cioè, “That’s one small step for A man, one giant leap for mankind”, non è mai stata pronunciata. E allora, nonostante la generosità dei posteri, che emenderanno il tutto e lo tramanderanno nella sua forma riveduta e corretta, l’essere umano sceso per la prima volta sulla Luna ha portato con sé ciò che è più proprio e inerente alla natura di quella “mankind” appena evocata: l’errore.
In seguito il povero Neil avrebbe smesso di perorare la sua causa perdente sarebbe sempre vissuto con quel ricordo, con la certezza di essersi trovato di fronte alla grande occasione e di averla mancata. “Cavolo, è andata davvero così”, ammetterà alla fine. “Ho buttato al vento le prime parole dette sulla Luna, eh?”.
Poteva andare peggio. Del resto, come si premura di specificare la London Review of Books, gli uomini spediti lassù erano piloti, non poeti. Le altre descrizioni di Armstrong (“Sì, la superficie è buona e polverosa. La posso sollevare con la punta del piede. Aderisce in strati molto sottili, come carbone”) non lasciano sognare, non danno ispirazione, non regalano emozioni o aperture a universi paralleli. Pazienza: fare gli scalini con in mano una poesia di Giacomo Leopardi e recitare i versi del canto notturno di un pastore errante dell’Asia, proprio quando l’Asia significava “Unione Sovietica” sarebbe sembrato inopportuno. E del resto, se davvero le avessero chiesto, come diceva il poeta, “Dimmi, o luna: a che vale / Al pastor la sua vita, / La vostra vita a voi? dimmi: ove tende / Questo vagar mio breve, / Il tuo corso immortale?”, quelle pietre e quella sabbia simile al carbone non avrebbero certo risposto. E soprattutto il pubblico americano non avrebbe capito.