L’intervento di Giuseppe Conte al Senato sul Russiagate ci dice tre cose. La prima: questa vicenda che appare così politicamente ininfluente in Italia, che non altera i sondaggi, che non tocca gli indici di fiducia del governo, fuori dai nostri confini è ritenuta tanto grave e foriera di inammissibili ambiguità da indurre il presidente del Consiglio a presentarsi in Parlamento per ribadire in modo inequivocabile che “nessun membro del governo si è discostato dalla linea di adesione alla Nato” e che nessuna forza politica “avrebbe potuto imprimere rapporti internazionali in forza dei rapporti intrattenuti con altre forze politiche di altri Paesi”. In pratica, Conte ha rassicurato sul fatto che, pure se la Lega avesse relazioni con il partito di Putin, non riuscirebbe a condizionare la lealtà atlantica dell’esecutivo.
Non era mai successo. Nemmeno ai tempi della solidarietà nazionale, quando nell’area di governo c’era un Pci sicuramente sospettabile di residue solidarietà con “l’impero del Male” sovietico, si è mai sentita l’esigenza di ribadire pubblicamente un dato così scontato come la nostra adesione all’alleanza occidentale.
Questa vicenda che appare così politicamente ininfluente in Italia, che non altera i sondaggi, che non tocca gli indici di fiducia del governo, fuori dai nostri confini è ritenuta tanto grave e foriera di inammissibili ambiguità
Il secondo dato che la giornata fotografa è la deliberata delegittimazione dell’attivismo di Conte da parte della maggioranza di governo e dei suoi stessi ministri. Solo Riccardo Fraccaro e Giulia Bongiorno si sono presentati in aula. Il Movimento Cinque Stelle ha lasciato clamorosamente l’emiciclo all’inizio del discorso del premier, ufficialmente per protesta contro la mancata partecipazione di Matteo Salvini ma, dicono in tanti, per segnalare un rabbioso dissenso dopo il sì di Conte alla Tav.
Il ministro dell’Interno ha scelto pure lui l’Aventino e ha trascorso la sua giornata social parlando di tutt’altro. La giustificazione ufficiale è che lui si occupa di “cose reali” e non di “rubli che non esistono”, e tuttavia le mancate risposte del Viminale alle richieste di Palazzo Chigi sulla genesi dell’invito di Gianluca Savoini a Mosca – sottolineata da Conte nel suo intervento – fanno immaginare una reticenza diversa, forse motivata anche da cautele giudiziarie.
Questa somma di defezioni segnala il terzo problema, molto grave, che solo in parte attiene alla perenne crisi virtuale dell’esecutivo e alle possibili conseguenze interne della doppia partita giocata da Conte su Russiagate e Tav, con i soliti interrogativi sullo sfarinamento del M5S, la possibilità che la Lega stacchi la spina, l’esistenza o meno di maggioranze alternative. Questa terza questione ruota attorno al ribaltamento di senso della giornata: un dibattito voluto anche (soprattutto?) per tranquillizzare l’Europa e gli alleati Nato sulla nostra collocazione e la nostra affidabilità rischia di risolversi nell’esatto contrario, cioè in un’ennesima dimostrazione della labilità delle nostre affermazioni e promesse e dello scarso sostegno offerto dal sistema politico italiano a chi le pronuncia.
Anche il Pd si è dato da fare per picconare il presidente del Consiglio, che pure formalmente era in Senato su richiesta dell’opposizione, e ha dato spettacolo con ripetute interruzioni al discorso e con un atteggiamento collettivo irridente, guidato dalle risate di un Matteo Renzi alla ricerca di visibilità dopo la decisione del partito di affidare ad altri l’intervento della giornata.
Le classi dirigenti del passato magari hanno fatto pasticci ma quasi sempre, quando colpite da uno scandalo, hanno avuto il coraggio di esporsi in prima persona. Questo governo no
Una delle regole non scritte della nostra politica riguarda la sospensione delle polemiche più sbracate quando si toccano temi di sensibilità internazionale. Se si discute di relazioni estere e di difesa, in Parlamento, non si fa teatrino, le parole vengono misurate, i toni cambiano. Ecco, ieri abbiamo stracciato anche questa consuetudine, peraltro senza che la sinistra si sia resa conto dell’effetto controproducente degli schiamazzi, che hanno depotenziato le denunce sul caso riducendo la vicenda russa a una bagatella di ordinaria amministrazione.
Insomma, nessuno esce bene dal pomeriggio di fuoco a Palazzo Madama, e soprattutto ne escono malissimo i tre leader – Salvini, Di Maio, Renzi – che dopo aver di fatto sabotato la seduta e lo “status” del premier si sono gettati in tre dirette Facebook contemporanee per eccitare le rispettive tifoserie contro i loro obbiettivi del momento: Salvini contro il M5S, evocando ancora una volta patti occulti per un’intesa col Pd; Di Maio contro Salvini per giustificare, in modo raffazzonato, l’uscita dall’aula dei suoi; Renzi, manco a dirlo, contro i suoi avversari interni che gli hanno impedito di parlare in aula. Effetto generale: una gran tristezza.
Le classi dirigenti del passato magari hanno fatto pasticci ma quasi sempre, quando colpite da uno scandalo, hanno avuto il coraggio di esporsi in prima persona e in diretto contraddittorio con i loro avversari. Dal memorabile discorso di Bettino Craxi su Tangentopoli all’intervento di Maria Elena Boschi su Banca Etruria, la storia italiana è costellata di interventi controversi ma a modo loro “storici”. Qualcuno ha affondato chi lo ha pronunciato. Altri – e viene in mente Aldo Moro sullo scandalo Lokheed, con il celebre “non ci faremo processare nelle piazze” – ne hanno fatto il segnale di una collettiva riscossa. È singolare constatare come i nuovi leader, pugnaci e apparentemente coraggiosi, preferiscano affidare i loro messaggi al retroscenismo e ai soliloqui social anziché a chiare prese di posizione suscettibili di repliche.