Allora, come si sta nella Repubblica del Banana? Piaccia o non piaccia, il ciuffo giallo di Donald Trump sta segnando un’epoca e sta cambiando molti assetti fin qui tradizionali della politica globale. In poche parole: quasi tutto ciò che, secondo gli esperti, non poteva funzionare, in realtà funziona. E tutto ciò che doveva ritorcersi contro gli interessi degli americani, in realtà porta loro beneficio. A meno che un incremento del Pil al 3,2% (primo trimestre 2019), l’export in crescita del 3,7% (sempre nel primo trimestre 2019), la disoccupazione ai minimi storici (3,6%, mai così bassa dal 1969) e i salari in aumento (più 3,2%) dopo ere geologiche di stagnazione siano da considerare un indicatore negativo.
La stessa cosa vale per la politica estera e commerciale, che nella Banana Republic formano una sola cosa, il fondamento dell’America First! a cui tutto e tutti vanno sacrificati. Quante previsioni negative sono state fatte all’inizio della guerra dei dazi che Trump ha lanciato contro la Cina, di volta in volta accusata di rubare brevetti, spiare segreti tecnologici, giocare con la svalutazione, ciurlare nel manico e altre nefandezze?
Il risultato maturato nel G20 di Osaka è sotto gli occhi di tutti. La Cina, di fronte alla minaccia di un ulteriore incremento dei dazi (dal 10 al 25%) su 250 miliardi di esportazioni negli Usa, ha reagito con calma e pragmatismo. Ha varato un importante programma di stimolo della domanda interna, ha autorizzato gli enti locali a emettere bond per finanziare le opere pubbliche, ha cercato di drenare denaro da Hong Kong con aste importanti di titoli. Misure difensive che non hanno cambiato l’esito finale. Alla fine la Cina è andata a Canossa: ha stabilizzato il cambio dello yuan sul dollaro e, appunto a Osaka, ha accettato di tornare al tavolo delle trattative. Tavolo che ha un unico proposito: ridurre il deficit commerciale degli Usa negli scambi con la Cina.
Non è stato certo Trump a scoprire il problema della relazione con la Cina
Non è stato certo Trump a scoprire il problema della relazione con la Cina e, soprattutto, del rischio per la posizione strategica degli Usa implicito nell’affermazione del Dragone. Nel 2015 la Casa Bianca obamiana aveva firmato il TPP (Trans Pacific Partnership), un trattato di libero scambio tra gli Usa e altri 11 Paesi ( Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Perù, Cile, Vietnam, Singapore, Brunei e Malesia) che aveva appunto lo scopo di frenare l’ascesa della Cina. Con parole degne del miglior Trump, la firma era stata così commentata da Barack Obama: “Non possiamo lasciar scrivere le regole dell’economia globale a Paesi come la Cina”.
A Pechino non si erano spaventati più di tanto. Con Trump, però, è cambiata la musica. Il Banana si è sbarazzato del Tpp e ha cominciato a mulinare la clava. Può non piacere, e infatti a molti non piace. Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha più volte ribadito che «in una guerra commerciale perdono tutti». Giovanni Tria, il nostro ministro dell’Economia e delle Finanze, non smette di ripetere che «la guerra dei dazi è negativa per l’economia internazionale e certamente anche per la nostra che è un’economia di esportazione».
Parole sagge. Purtroppo di tutto questo a Trump importa poco. In più, come si diceva descrivendo la congiuntura dell’economia Usa, i fatti gli danno ragione. Anche perché le guerre commerciali gli consentono di ottenere ricadute politiche interessanti, soprattutto dopo che si è aperta la spropositata campagna elettorale che porterà alle presidenziali del 2020.
Donald Trump in quattro e quattr’otto è riuscito non solo a incontrare Kim Jong-un ma anche a mettere piede (primo Presidente americano della storia) nella Corea del Nord
Si prenda l’esempio del Messico. Donald Trump ha rinegoziato l’accordo di libero scambio minacciando di sanzionare tutti i prodotti Made in Mexico. Una misura che avrebbe alla fine penalizzato l’economia americana, visto che moltissime grandi aziende Usa producono in Messico e che dal Messico arrivano le forniture necessarie alle aziende americane sparse lungo il confine e anche oltre. La lunga polemica è però servita a ottenere dal Governo messicano una serie di concessioni sul controllo dei flussi migratori, tutta benzina per la campagna elettorale di Donald Trump. Era questo il vero obiettivo.
Anche dal confronto con la Cina è scaturito qualcosa di simile, solo più in grande. Perché dopo l’incontro di Osaka con Xi Jin-ping, Donald Trump in quattro e quattr’otto è riuscito non solo a incontrare Kim Jong-un ma anche a mettere piede (primo Presidente americano della storia) nella Corea del Nord. Una fantastica photo opportunity, uno spottone elettorale gentilmente offerto dal leader cinese. E se con questo si arriverà alla denuclearizzazione della penisola coreana, tanto meglio per tutti.
Un passo avanti, due indietro, uno di lato e qualche capriola. La Repubblica del Banana funziona così. Quel che conta è che per l’America funziona. A Trump basta e avanza.